Due orecchie e una bocca sola: il nuovo libro
Tecniche ed esercizi per ascoltare e per parlare in pubblico
Se gli dei ci hanno dato due orecchie e una bocca sola, diceva un filosofo, un motivo ci sarà.
Eppure studiamo come parlare in pubblico, e pensiamo che per ascoltare basti stare lì. Ascoltare l’interlocutore, invece, è una fatica. Bisogna prepararsi, concentrarsi, sollevarsi, spostarsi. Essere disposti a cambiare. Ma esistono tecniche specifiche per costruire sintonia durante una conversazione, un incontro, o anche – se occorre – uno scontro.
Allenàti all’ascolto, possiamo poi parlare in pubblico con più energia e con più sicurezza. Nel nuovo libro di Alessandro Lucchini, gli errori da evitare, le abilità necessarie e gli esercizi per svilupparle, le strutture utili per impostare il messaggio, i modelli cui ispirarsi, l’uso delle emozioni, le tecniche logiche e linguistiche da allenare.
È il Metodo APP: prima Ascoltare, poi Parlare in Pubblico
Dall’introduzione del libro
PRELUDIO
Cominciamo con una storia araba.
C’era una volta un mercante molto ricco: aveva ben 17 cammelli.
Aveva tre figli, uno di 30 anni, uno di 20 e uno di 10.
Andando avanti negli anni, cominciò a pensare a cosa avrebbe dovuto fare del proprio patrimonio, a come dividerlo in modo equo per i propri tre figli.
17 è un numero primo, non divisibile per 3. Ma al di là di questo, pensava non fosse giusto dividere il patrimonio in parti uguali, o quasi uguali: il figlio più grande lo aiutava nel lavoro da molti anni, il medio già da qualche anno, il piccolo era ancora a carico suo e dei fratelli.
Pensa, ripensa, consulta i saggi, leggi il Corano. Una notte ebbe una folgorazione. Si alzò, prese una pergamena e scrisse tre frazioni:
1/2
1/3
1/9
Arrotolò la pergamena e la ripose in una tasca della sella del suo cammello preferito.
Per sua fortuna, visse e prosperò ancora diversi anni.
Ma un brutto giorno, arrivò il momento finale.
E come capita in molte famiglie, i figli, ormai cresciuti, cominciarono a litigare, a dilaniarsi per la divisione del patrimonio: io ho più diritto di te, non è vero, sono figlio anch’io come te, dammi un pezzo del tuo cammello… Malumori, rancori, ripicche, scontri continui. Finché un giorno, in lontananza, i tre fratelli videro una nuvoletta di polvere, poi un uomo a dorso di un cammello, poi riconobbero l’uomo. Era un vecchio amico del padre, anch’egli mercante. Lo accolsero, lo lavarono, lo profumarono, gli offrirono da mangiare. Il vecchio coglieva della tensione, e ne chiese il motivo.
Gli raccontarono.
«Ragazzi, in nome di Dio – commentò – io sono stato un grande amico del vostro papà. L’ho amato molto. Anch’io ho lavorato tutta la vita, non sono stato fortunato o bravo come lui. Ho messo da parte un solo cammello, questo. Con tutto il mio cuore, ve lo regalo.»
I ragazzi capirono subito che avevano la soluzione al problema, perché 18 è divisibile per 2, per 3 e per 9. Fecero festa, mangiarono, bevvero, facendo un’eccezione alle leggi si ubriacarono anche un po’, e andarono a dormire, sereni.
Al risveglio, si stupirono, anzi si allarmarono: il vecchio se n’era andato. Con il suo cammello.
Corsero a vedere ciascuno la propria stalla, ma con ancora più stupore videro che ciascuno aveva tutti i propri cammelli.
Perché per uno strano gioco della matematica,
18 diviso 2 fa 9
18 diviso 3 fa 6
18 diviso 9 fa 2
e 9 + 6 + 2 fa ancora 17.
La storia non è mia. Né è particolarmente originale. La usano molti speaker, come favola con molte morali: generosità, saggezza, altruismo, problem solving. Qui serve solo per dare una luce di magia al tema di partenza, l’ascolto.
Perché l’ascolto prima del parlare in pubblico
Perché sono due facce della stessa medaglia.
E non solo per quella storia tanto sbandierata dal filosofo greco – metti fosse Talete, o Zenone, o Epitteto, che importa – che se gli dei ci hanno dato strumentazione doppia per l’ascolto, è perché dovremmo ascoltare ben più di quanto parliamo.
Proprio perché il public speaking è la scuola superiore: l’ascolto sono le elementari e le medie. Non capisci le equazioni logaritmiche, se non hai familiarizzato con le tabelline.
E poi perché allenarsi all’ascolto è la migliore terapia preventiva contro i rischi del narcisismo.
Il narcisismo, sì, la deriva più insopportabile di moltissimi speaker. Che quando parlano in pubblico, non parlano “con il pubblico”: parlano con se stessi. Si blaterano addosso.
Oh, intendiamoci: un pochino di narcisismo, quelli che parlano in pubblico, ce l’han tutti.
E credo anche tu, cara lettrice, caro lettore, che stai dicendo dentro di te “No, io no, questo io proprio no”, anche tu, in fondo, un pochino ce l’hai. Intendo pensieri tipo questa la so, ora vi mostro quanto sono in gamba, appena supero un attimo di tensione vedete come vi asfalto. Magari solo accenni di pensieri di questo tipo, non così lucidi e determinati. Comunque dentro ogni public speaker, forse anche i più timidi e schivi, se stanno lì sotto i riflettori, un grammo di narcisismo c’è.
Come? Ah, sì, certo, anch’io. (ti ho sentito, sai?) Lo confesso. L’adrenalina, da un lato, il senso di responsabilità dall’altro, oltre a tutto quel groviglio di emozioni che si usa definire “ansia da palcoscenico”, danno anche un certo piacere. Sentirsi occhi orecchie e cuori addosso, sapere che loro sono lì per te, e tu sei lì per loro, che si aspettano da te qualcosa, e per questo ti ascoltano. Sì, eccitante la sua parte.
Certo, se tutto questo diventa una solenne masturbazione cerebrale, un’occasione per dare sfoggio di cultura e di profondità, per inanellare citazioni colte, per sparacchiare latinismi o anglicismi, per metterti su un altarino e far sentire il pubblico una massa di ignoranti, ecco, meglio di no.
Ed è proprio la pratica dell’ascolto, metodica e costante come un allenemanto sportivo, che tiene lontano da questa deriva. Nei momenti di tensione emotiva – e uno speech può esserlo – prendere le distanze e mettersi in ascolto aiuta moltissimo.
Trovare il 18mo cammello nei conflitti mondiali è stata la passione della mia vita. Vedo l’umanità come quei tre fratelli; siamo tutti una famiglia. Grazie alla rivoluzione delle comunicazioni, tutte le 15.000 tribù del pianeta sono in rapporto l’una con l’altra. È una grande riunione di famiglia. E, come in molte riunioni di famiglia, ci sono molti disaccordi. La domanda è: come affrontare le nostre differenze, data l’umana propensione al conflitto e alla capacità di realizzare armi per enormi distruzioni? La risposta è: prendere le distanze, come fece il vecchio saggio, guardare la situazione con occhi nuovi per trovare il diciottesimo cammello.
Così William Ury, professore di negoziazione alla Harvard university, uno dei maggiori esperti mondiali di ascolto, nel suo TED The walk from no to yes.
È l’ascolto, dunque, la luce per trovare il 18mo cammello.
Perché ascolto e parlare in pubblico, da “Palestra della scrittura”
Beh, Palestra perché anche per ascoltare, per parlare, in genere per comunicare, sono necessari attrezzi e allenamento, come in ogni sport. Sport e linguaggio hanno in comune abilità, pensiero, esercizio, ritmo, armonia, rigore. Servono allenamento, costanza, tenacia. E passione.
E la scrittura?
Già, spesso l’ascolto è studiato da psicologi, neurologi, antropologi. E pure il public speaking, con l’aggiunta, qui, di teatranti, manager passati alla consulenza. Ok, tutto buono.
Il nostro approccio capitalizza invece l’esperienza della scrittura, come allenatore di logica e di linguaggio. Grazie alla sua proprietà di fermare i pensieri in paragrafi, di farceli vedere lì, come in foto, comodi da analizzare, da spostare, da provare e riprovare, scrivendo possiamo sperimentare tecniche ed esercizi, da applicare poi nelle relazioni.
Perché i tanti richiami al TED e a YouTube
Per anni ho spigolato, scaricato, analizzato interventi da YouTube, la più grande videoteca del mondo. Se accade qualcosa di rilevante nei media, negli eventi, nella vita delle persone, dopo pochi minuti è facile che sia in YouTube. E noi studiosi di comunicazione impieghiamo del tempo nel distinguere i materiali di valore dalla spazzatura. Poi, come aver ottenuto i volumi da una biblioteca specializzata, eccoci lì a vedere, ascoltare, far scorrere, mettere in pausa, tornare indietro, decine di volte, finché abbiamo trovato lo spezzone su cui puntare il microscopio.
Per anni ho studiato il TED, il più importante archivio mondiale di public speaking. Il TED, per la precisione, è un’impresa americana di conferenze, nata nel 1984, focalizzata inizialmente sui tre temi della sigla, Technology Entertainment Design, poi ampliata all’universo della scienza e della cultura. Hanno parlato al TED le persone più importanti del mondo, da Clinton a Bill Gates, premi Nobel, inventori, attivisti politici di ogni parte della Terra. Sono nati poi i TEDx, eventi organizzati in vari Paesi del mondo in modo autonomo, basati sulla filosofia e sulla missione TED: Ideas worth spreading, idee che vale la pena di diffondere.
Nel novembre 2016 ho avuto l’onore di partecipare come speaker al TEDx di Trento, e di trattare lì il tema dell’ascolto (basta cercare in rete “Lucchini+TEDx+ascolto”). Il mio titolo: 7 allenamenti per un ascolto efficace. Proprio quello. Nascono sviluppando quel talk le prime 40 pagine di questo libro.
Ecco perché tanto TED e tanto YouTube: è un atto di riconoscenza, ed è la principale indicazione bibliografica (webliografica).
Perché Il druido in copertina
Il druido era il sacerdote cui competevano, tra i Celti della Gallia e delle isole britanniche, alcuni riti di culto, la divinazione, la presidenza delle assemblee religiose, l’arbitrato nelle controversie tra tribù, l’amministrazione della giustizia, la conservazione e la trasmissione del sapere tradizionale.
Le etimologie della parola druido sono molte. Opinione comune è che derivi da due parole celtiche: duir, che significa quercia (drus in greco), e vir, saggezza (in latino vir è l’uomo di carattere, di personalità).
Il druido è dunque la persona saggia, il maestro, il veggente, il giudice, l’arbitro, il consigliere. Insomma uno che parla solo dopo aver ascoltato a lungo, confrontando i racconti della gente con le norme e con la propria esperienza.
Mi sembrava un bel simbolo, dunque, di quel che intendiamo qui per “due orecchie, una bocca”.
E poi, nel mio studio di casa, tra le carte i libri e tutto il resto, staziona da anni un druido scolpito in un fusto di quercia, che mi guarda, mi ascolta, a volte mi sembra sentirlo parlare (i suoi consigli vanno dal «pensaci bene» al «non dire cazzate»). Credo che aspettasse pazientemente una copertina.
Perché “Preludio”
Non è come pensi, malizioso d’un lettore visivo o cenestesico. So già, starai pensando: “Ecco la pippa per gli auditivi, i koala della comunicazione”. Sono auditivo, sì, appartengo a questa razza in estinzione. E allora? non posso suggerire qualche spunto dal mio mondo, e non solo ai miei simili, anzi, proprio a tutti gli altri?
Del resto, che gli auditivi siano più propensi all’ascolto è naturale. Ma forse proprio per questo, a volte, sono meno concentrati quando c’è davvero bisogno di ascoltare a fondo, si fidano del loro istinto, peccano di self confidence. Lo studio qui presentato mira proprio ad andare oltre l’istinto: è il tentativo di mettere a punto un metodo, per l’ascolto, da capitalizzare poi anche nel public speaking.
Il richiamo alla musica, poi – preludio, e poi interludio, e poi postludio (che son neanche sicuro che esista, ma facciamo come se) – è un’evocazione come un’altra.
È un invito all’armonia.
E con questo, possiamo cominciare.
Buona lettura.
- On 27 Ottobre 2017