Il 20 novembre è un giorno da ricordare
di Lia Giovanelli
Un Pubblico Ministero, in un’Aula di Giustizia Minorile dove si sta svolgendo una udienza penale, si guarda intorno e poi si rivolge a una ragazzina di forse 15 anni: “Ma lei … lei è Parte Lesa?” e la ragazzina risponde: “Io veramente sono Sonia Colombi”.
Il 20 novembre è un giorno da ricordare perché in questa data, nel 1989, è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York “La Convenzione sui diritti dell’infanzia”, ratificata negli anni successivi da 193 Stati.
Prima di questo importante strumento normativo internazionale esisteva solo la Dichiarazione dei diritti del bambino (Ginevra, 1924) scritta da una dama della Croce Rossa (che nel 1919 aveva fondato Save the children).
La Dichiarazione, scaturita dalla necessità di tutelare vedove e orfani, con pochi e chiari principi afferma le necessità materiali e affettive delle bambine e dei bambini.
La Convenzione di New York ha invece introdotto un cambiamento radicale di prospettiva, impegnando gli Stati ad adoperarsi non solo per proteggere l’infanzia e rispondere ai suoi bisogni fondamentali, ma anche per promuovere l’intera gamma dei diritti e delle libertà che devono essere formalmente riconosciuti e effettivamente esercitati, dai bambini e dagli adolescenti, in quanto soggetti di diritti al pari degli adulti (e pertanto diritti civili, politici, sociali, economici, culturali).
L’accettazione universale della Convenzione potrebbe dare oggi l’impressione di un documento scontato o superato, ma l’idea stessa che i bambini siano titolari di diritti è ben lontana dall’essere accettata ovunque.
Sappiamo bene che tanta parte del mondo non rispetta (o addirittura nega) i diritti dei bambini: il numero di piccoli che muoiono di fame o per cause evitabili, che non frequentano la scuola, che sono abbandonati o sottoposti a violenza, abusi e sfruttamento è allarmante.
Sappiamo che l’utilizzo di bambini nei conflitti armati rappresenta una spietata e crudele evoluzione delle guerre moderne.
Sappiamo che l’abuso sessuale, la prostituzione minorile e il turismo sessuale rappresentano una piaga in preoccupante aumento.
Sappiamo anche che le parole che fatichiamo a trovare per descrivere tutto questo non servono alle piccole vittime di ogni tipo di violenza, comprese quelle che ci paiono più lievi, come la violenza psicologica o l’incuria.
Sappiamo bene tutte queste cose, ma siamo sicuri di esserne consapevoli?
Il modo in cui la nostra stampa sta trattando il recente caso delle adolescenti sfruttate come prostitute è terribile, e non si tratta di non dare le notizie, ma del modo e del linguaggio che viene usato per darle. E’ inutile definirle utilizzando termini e aggettivi volgari o impropri quando si parla di ragazzine minorenni, sfruttate da individui senza scrupoli. Così com’è inutile infierire sulle madri istigatrici o assenti (e, a proposito di assenze, i padri di queste ragazzine, dove sono?) quando quella che emerge è una fotografia di vulnerabilità, debolezza e disagio sociale…
Ma chi si sta prendendo cura di queste creature, poco più che bambine, che rischiano di diventare, agli occhi dell’opinione pubblica, non più vittime, ma complici?
Da alcuni anni svolgo l’incarico di Giudice Onorario al Tribunale dei Minori di Brescia e, lavorando con ragazzi imputati o vittime di reati, ho imparato che la cosa per me più importante non è prendere le distanze dai fatti (e purtroppo nel penale si vive di fatti), dal come sono accaduti e da come possiamo usare nel migliore dei modi gli strumenti messi a disposizione dalla giustizia minorile. Ciò che è fondamentale per me è lasciarmi “compromettere” dalle situazioni, soffrirci certamente, ma anche appassionarmi e riderne a volte, come unica possibilità che ho per poter “minare” la estraneità dei fatti che, come giudici, siamo chiamati a valutare.
E gli adolescenti che ho di fronte perdono così la loro identità di “imputati”, spesso inconsapevoli, o “vittime”, spesso involontarie, per tornare ad essere solo ragazze e ragazzi da aiutare. Esseri indifesi da allontanare da quei terreni sconosciuti e insidiosi nei quali si trovano ad annaspare.
La risposta di Sonia al Pubblico Ministero non è fiction, è un fatto realmente accaduto.
Così come accade spesso che il Giudice o il Pubblico Ministero si rivolgano ai ragazzi chiedendo: “Perché l’imputato non ha ottemperato alla data d’inizio delle operazioni peritali?” oppure “Ha pienamente compreso (sottinteso sempre il povero imputato) il disvalore dell’azione commessa?”.
I ragazzi devono declinare le loro complete generalità, compresi gli alias, al cancelliere. Spesso i loro racconti vengono definiti ultronei, la bicicletta è ancora velocipede, e quello che hanno combinato è il titolo del reato.
La maggior parte dei ragazzi nelle aule di giustizia vengono da altre parti del mondo, hanno nomi suggestivi, lunghi e composti da tante consonanti, ma non hanno un nome di battesimo, così come non gli importa del Natale, perché hanno il loro Natale, ma noi ci ostiniamo a volerli definire e giudicare secondo quello che conosciamo e siamo abituati a fare.
Sara, una ragazzina dall’infanzia negata, un giorno in Tribunale mi ha detto “All’inizio, quando sei piccola, non sai se cresci bene o cresci male, ma sai che quello di cui hai bisogno è che ogni giorno qualcuno si occupi di te.”
Ed è anche per questo che voglio ricordare l’anniversario della “Convenzione sui diritti dell’infanzia” perché è ancora lunga la strada che arriva a porre i bambini e gli adolescenti al centro dello sviluppo umano.
Platone dice “L’educazione dei bambini è il principio di cui si vale ogni comunità umana per conservare se stessa”.
E allora coraggio, non rinunciamo alla nostra funzione: proteggere e tutelare i bambini, oltreché rispondere a un loro diritto riconosciuto, è il nostro migliore investimento per il futuro.
Lia Giovanelli è Giudice Onorario al Tribunale dei Minori di Brescia e Responsabile U.O. Formazione e Sviluppo Professionale
- On 18 Novembre 2013