Don’t shoot the storyteller.
di Bianca Borriello
Lo storyteller crea danni perché non è oggettivo, non contestualizza, non aiuta a comprendere i fatti e a metterli nella giusta prospettiva.
Così riportava un articolo della rivista Wired dal titolo I danni dello storytelling (al giornalismo) del luglio 2015.
La tentazione di buttarla sul filosofico è forte, quella di ragionare sui limiti della capacità umana di oggettivare la realtà pure. Il tema della soggettività dell’esperienza è un universo e come tale non è semplice decidere quali punti unire per trarne una costellazione riconoscibile. Decido quindi di partire da quello che osservo: mia nonna raccontava storie, mia madre racconta storie, i miei figli raccontano storie. La mia bimba più piccola di ritorno dal suo primo viaggio a Venezia ha sentenziato “mi era piaciuta di più l’altra volta” e pur facendole notare che si trattava appunto della sua prima visita, la mini-narratrice non ha mollato la presa sostenendo “sì, che ci sono già venuta, era prima di nascere”.
Passiamo ogni istante della nostra vita ad elaborare storie a ciclo continuo, sogniamo ad occhi aperti, ad occhi chiusi, progettiamo il futuro e proiettiamo su uno schermo interiore il film sempre diverso delle esperienze passate. Per alcuni studiosi le storie sono un semplice gioco cognitivo, per altri uno strumento di problem solving e apprendimento, per altri ancora una via d’uscita dalla cultura del destino unico: inventiamo altri posti nel mondo in cui vivere tutte le vite possibili. Spesso raccontiamo storie per mettere un punto, per tracciare una linea tra prologo ed epilogo, per dare una forma contenuta ad ogni esperienza che percepiamo come incontenibile. E poi cancelliamo, deformiamo, generalizziamo, ok, ma soprattutto, è un fatto, ricamiamo. In condizioni ottimali, una mente ben funzionante aggiunge fiocchi, pizzi e merletti a ciò che accade; abbelliamo la nostra rappresentazione mentale della realtà allo scopo di renderla attraente (nel senso di attrahere = tirare a se) agli occhi e alle orecchie di chi viene dopo o ci sta intorno. Non è una notizia, nel senso di novità. Ecco, per l’appunto, notizia viene da notes, participio passato di noscere che vuol dire conoscere. Conoscere è “nel significato più ampio e filosofico, apprendere e ritenere nella mente una nozione” e perché la mente ritenga una nozione le serve una storia. Da qui il rapporto intimo e funzionale tra notizia e racconto: perché le storie hanno il potere di attivare entrambi gli emisferi del cervello facendoli lavorare insieme, sintonizzano aspetti razionali ed emotivi, ci consentono di apprendere elementi consci e inconsci della notizia.
Se è vero, come dice l’articolo, che “negli ultimi 30 anni abbiamo assistito alla frantumazione delle classiche aggregazioni sociali”, se ci è diventata più difficile la lettura del mondo tramite quotidiani, periodici e tg, la soluzione è nel raccontare più storie, non certo nel farlo di meno. Se mai l’imperativo è farlo meglio. Senza sciatterie che invece sì, confinano me e tutti gli altri umili lettori della realtà, in un temibilissimo analfabetismo di senso.
Poi se qualche giornalista, per stare in pace con la propria coscienza, sceglierà di mettere in calce ad ogni articolo la postilla *basato su una storia vera*, non ne sarò contrariata.
Del resto “Tutte le storie sono vere e alcune di esse sono anche accadute.” (Diana Bertoldi – storyteller).
Per approfondire i temi dello storytelling consigliamo “L’istinto di narrare” di Gottschall Jonathan.
Per scoprire come la narrazione può essere uno strumento per pre-raccontarsi il cambiamento trovate qui il nostro “Futuro anteriore” ed. Centopagine.
Per allenarci a Scrivere storie vi aspettiamo in Palestra della scrittura con il corso Open Storywriting il 12 novembre 2016.
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Per informazioni e iscrizioni: Mara Lombardi – mara.lombardi@palestradellascrittura.it – tel: 339 4472607
- On 24 Ottobre 2016