Linguaggio e potere
di Titti Soncini e Alessandro Lucchini
Conversazione con Marco Bertoli, direttore generale del Comune di Sesto San Giovanni (Mi).
Marco Bertoli è dal 2000 direttore generale del Comune di Sesto San Giovanni.
Una vita piena: filosofo, dirigente politico, deputato dal ’76 al ’79, a soli 26 anni, dirigente industriale, amministratore pubblico. Adesso fa da semaforo – secondo la sua stessa definizione – tra potere politico e apparato tecnico, cercando di tenere ben distinti i ruoli.
In questa intervista parla di come una città dev’essere competitiva e attraente, di come la competizione passa dai valori ma anche dal linguaggio, di come il linguaggio può diventare sistema di potere.
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Questa intervista nasce dopo la giornata di presentazione, svoltasi lo scorso giugno, di un ciclo di corsi sulla comunicazione in programma al Comune di Sesto. Da padrone di casa, Bertoli introduceva: chi si aspettava i soliti argomenti – come siamo lieti di essere riusciti a organizzare questo corso e com’è importante l’attenzione al linguaggio per un’amministrazione seria e impegnata… – sarà rimasto deluso. Bertoli ha raccontato come una città dev’essere competitiva e attraente, come la competizione passa dai valori ma anche dal linguaggio, come il linguaggio può diventare sistema di potere. Ha parlato dei grandi valori, della Costituzione, della nostalgia… dalla quale non dobbiamo lasciarci prendere. Uno di quegli amministratori che pensavi di dover ascoltare per forza, o per cortesia, o per opportunità, e che invece ti ritrovi a rincorrere, per chiedergli: «Possiamo approfondire?». Ed eccoci qui.
Lei ha parlato di “competizione”, parola tradizionalmente privatistica. Che significato ha, per una città?
È la constatazione di com’è fatto il mondo. Che non è un mondo tutto bello e buono, dove tutti sono santi e altruisti. È un mondo in cui bisogna competere per sviluppare se stessi. Se Sesto vuole avere un futuro che non sia di decadenza, oggi deve competere con altri grandi pezzi del mondo, deve fare scelte importanti e produttive per la sua gente e il suo territorio. Se riusciamo a portare avanti il progetto di Renzo Piano, quindi attirare a Sesto “funzioni nobili”, come dicono gli architetti, significa che grandi centri di eccellenza mondiali giudicano Sesto più attraente rispetto alla periferia di Barcellona, di Berna, di Lione o di Francoforte. In passato Sesto l’ha fatto; è stata una dei pezzi di eccellenza dell’industria europea: Falck, Marelli, e Breda sono pezzi di storia.
Sesto è già stata una cosa grande: la “Stalingrado d’Italia”, si diceva. Cos’è rimasto di quella cultura, che cosa si può portare avanti di quel momento storico-sociale, di quell’ispirazione collettiva?
Il venir meno delle grandi fabbriche avrebbe potuto causare sconquassi enormi. In 20 anni Sesto ha perso 30/40 mila posti di lavoro, su una popolazione di 80.000 persone, senza determinare uno sconvolgimento sociale simile a quello di Liverpool o Manchester. A Sesto, con l’aiuto della legislazione nazionale, con la cassa integrazione, ma anche grazie al tessuto sociale, si è impedito un disastro. Il tessuto sociale sestese ha retto, ha resistito al fascismo e alla deindustrializzazione, e questa è una ricchezza che la rende attraente.
Sesto inoltre è una città plurale. È in grado di produrre personale dirigente. Circolano per Sesto personaggi di rilievo: l’ex segretario nazionale della Cigl Pizzinato, l’ex segretario nazionale delle Acli Bianchi, l’ex presidente della Provincia di Milano Penati, il fondatore di Emergency Gino Strada, Don Comegna, l’inventore della Caritas Ambrosiana.
Quella che Sesto si porta dietro non è nostalgia: è memoria, che è radicalmente diversa. Non è passato: è memoria per il futuro. Un popolo che ha memoria è un popolo che guarda avanti.
La sua esperienza lavorativa è varia. Come ha visto cambiare il linguaggio della politica, dell’industria, dell’impresa, e come sta cambiando il linguaggio dell’amministrazione pubblica? Che cos’hanno in comune questi linguaggi?
“Parlare difficile” serve a costruire un sistema di potere di intellettuali lontani dal comune sentire. È complicatissimo, soprattutto in Italia, rompere il privilegio che gli intellettuali vogliono riservare a sé, usando come strumento il potere del “parlar difficile”. È vero, d’altra parte, che ci sono elementi di specialismo. Ma quando il linguaggio specialistico viene usato al di fuori delle necessità della disciplina, allora diventa elemento di potere, con conseguenze molto negative. Anzitutto impedisce la comunicazione orizzontale. E questo nel mondo contemporaneo determina il fatto che gli italiani non parlano con gli arabi, gli arabi non parlano con i cinesi… E torno a Sesto: se Sesto vuole competere, deve poter comunicare universalmente, perché altrimenti ci si restringe, si parla il dialetto. E il dialetto non è solo lingua di popolo, è anche lingua di casta, codice elitario. Seconda conseguenza: i linguaggi specialistici usati come sistema di potere determinano una radicale lontananza degli intellettuali da quello che una volta si usava chiamare “popolo”. Ecco perché è necessario che la pubblica amministrazione rompa questa lontananza, perché il linguaggio incomprensibile, qui più che altrove, è alla base di un potere non legittimo. La comprensibilità permette al potere di essere controllato. Sottoporsi al controllo significa anche farsi capire.
Secondo lei che cosa manca al linguaggio della politica per attrarre di nuovo i giovani, per farli interessare alla politica?
Ho un figlio che l’anno prossimo avrà 18 anni e voterà. Mi dice che voterà PD perché non gli piacciono gli altri. Non so quanto mio figlio sia rappresentativo, ognuno pensa che suo figlio lo sia. Rispetto a quando ero ragazzo io, vive in un mondo più complicato. Allora il mondo era diviso in due. Oggi in quante parti è diviso? C’erano i buoni e cattivi; ora non ci sono più. Dalla mia parte, siamo diventati grandi capendo che anche il mondo della sinistra non era tutto buono. Ha però un vantaggio il ragazzo di oggi: può trovare nel lavoro elementi di miglioramento del mondo in cui vive. Congiungere nel lavoro passione professionale e passione civile. Noi avevamo davvero la vita divisa in due, in modo del tutto artificiale: da un lato la politica e dall’altro il lavoro, da un lato i valori e dall’altro la vita. Per cambiare in meglio il mondo, la mia generazione aveva solo la politica, il lavoro era tutt’altra cosa. I ragazzi di oggi possono mettere insieme professione e passione civile, e sperare che il loro lavoro non sia inutile, ma che serva a cambiare un po’ in meglio il mondo. E in fondo, poi, siamo sicuri che bisogna essere nostalgici dei grandi valori ideologici o ideali?
Torniamo al suggerimento di non essere nostalgici, ma di concepire la memoria come veicolo di tradizione. Quali sono le parole chiave del nuovo millennio che si possono ricostruire, agendole nel quotidiano?
Secondo me sono queste: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l`eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l`effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all`organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. È l’articolo 3 della Costituzione.
Semplice?
Sì.
Ci crediamo ancora?
Beh, la memoria è proprio questo.
- On 15 Dicembre 2011