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Chiamami col mio nome, anche se “suona male”

Guida all’uso di una comunicazione non sessista

di Gabriella Rinaldi

A proposito di suoni e comunicazione, oltre che di sessismo, un collegamento sorge spontaneo.
Non si tratta, in questo caso, di suoni nel senso stretto del termine ma di musica.

Dai, lo so che hai capito. Ti do un indizio per fugare ogni dubbio: è il fenomeno mediatico di cui più si parla in Italia in questo periodo dell’anno.

Ovvio: è Sanremo. Se navighiamo sul web, se leggiamo i giornali e se siamo sensibili al tema, avremo di certo sentito parlare del polverone mediatico causato da Amadeus in conferenza stampa qualche giorno prima del festival.

Aldilà delle polemiche che hanno spaccato in due, in tre, e anche in quattro, il capello sull’ormai famoso “passo indietro”, si può cogliere l’occasione per fare una riflessione sul tema del sessismo nella lingua scritta o parlata, che diventa poi senso del vivere comune.

L’industria culturale è responsabile della comunicazione che produce e che fornisce?

Sembra che il tema del sessismo insito nel linguaggio in generale, nei media in particolare, sia particolarmente caldo. Specie dopo che movimenti sociali come il #MeToo hanno iniziato a far scricchiolare certe granitiche certezze e a farne germogliare di nuove.

Il linguaggio con il quale ci esprimiamo, che si tratti di un dialogo informale oppure di un contesto di lavoro, mettiamocelo in testa, definisce la realtà dei fatti. E di un bagno di realtà avremmo bisogno tutti quanti perché, seppure predichiamo cambiamento e innovazione in tutte le sue forme, spesso ci troviamo a dover fare i conti con la paura di fare davvero quel fatidico “passo avanti”.

Sono passati più di 30 anni da quando Alma Sabatini, linguista e insegnante, aveva redatto “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, eppure eccoci ancora qui a domandarci cosa si possa definire sessista. Eccoci ancora qui a domandarci se le professioni declinate al femminile “suonano male”. Beh, mi spiace, ma bruttezza e cacofonia non sono parametri linguistici, non sono giustificazioni per nascondersi dietro la presunta neutralità del maschile che unisce tutti i generi.

Non suonano forse male anche tante delle numerose parole mutuate e deformate dall’inglese, dal mondo digitale e della tecnologia che entrano nel linguaggio comune, se non addirittura professionale (aziendalese, come direbbe qualcuno)? Quelle però non suonano poi così male, dai.

Cosa significa utilizzare un linguaggio non sessista?

In un mondo in cui vige il criterio androcentrico delle lingue che neutralizza e materializza il mondo che conosciamo, basterebbe coniugare una certa consapevolezza della lingua alle esigenze di chiarezza nella scrittura professionale e ad una certa dose di buon senso.

Usiamo le forme estese come avvocato e avvocata, quella abbreviata avvocato/a, oppure inseriamo l’asterisco e semplifichiamo con avvocat*? Risposta: usiamo il buon senso. Per esempio, se in un testo, per motivi di spazio e concisione, non possiamo inserire più volte le forme estese, le utilizzeremo all’inizio per poi riportare semplicemente i nomi di persona che già connotano il genere.

Non si tratta di femminismo a tutti i costi, né di voler vedere sessismo a tutti i costi, è una questione che ci riguarda tutti: assecondare insieme il cambiamento della cultura e della lingua con i mezzi a nostra disposizione. Senza dimenticare il buon senso.

Parità non è adeguamento alla norma uomo ma consapevolezza del pieno sviluppo e della realizzazione di tutti gli esseri umani nelle loro diversità. Teniamolo a mente: un linguaggio che non mette in evidenza la diversità, è un linguaggio che nasconde.

“La parola è materializzazione” diceva Alma Sabatini, quindi nel dubbio chiamiamo le cose col loro nome. Anche se suona male.

  • On 12 Febbraio 2020

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