The Place, di Paolo Genovese
di Chiara Lucchini
Ascolto paziente, osservazione minuziosa, dialoghi precisi e ben costruiti sulle battute dell’interlocutore. Niente inseguimenti, niente dinamicità di azione, tutto sempre intorno al tavolo di un bar, eppure c’è una tensione fortissima che si respira per tutto il film. E che lascia la libertà d’interpretare situazioni e personaggi con il libero arbitrio, che sembra ispirare l’intero racconto. The Place è tutto per appassionati di logica e di parole.
Un posto per ascoltare
Un film costruito in un unico spazio, in cui l’intera narrazione si sviluppa unicamente attraverso i dialoghi tra i personaggi. Con The Place Paolo Genovese ritorna, dopo Perfetti sconosciuti (2016), all’unità di luogo.
Ispirato alla serie americana The Booth at the End, nata per il web, creata da Christopher Kubasik, il film è ambientato in un locale di Roma, The Place, e ha come protagonista un uomo (Valerio Mastandrea), che sta sempre seduto allo stesso posto, a ogni ora del giorno e della notte, senza nemmeno dormire. È stanco. Fa un lavoro strano. Non sappiamo il suo nome: quando la cameriera del locale (Sabrina Ferilli) glielo chiede, lui dice che non è importante. Non sappiamo nient’altro di lui, non gli piace parlare: preferisce ascoltare.
Sul tavolo tiene un grosso quaderno di pelle nera, qualche volta ci scrive delle cose, altre volte le legge.
Nel corso del film riceve diverse persone in cerca di aiuto. Tutte esprimono un desiderio.
«Si può fare», risponde. Lui le accontenta, ma sempre e solo in cambio di un’azione, spesso eticamente discutibile.
Un poliziotto che vuole ritrovare dei soldi che ha perso, una suora che desidera ritrovare la fede che non sente più, un uomo che vuole passare una notte con una donna di cui tiene una foto appesa in officina, una ragazza che vuole diventare più bella, un padre che vuole salvare il figlio, una donna anziana che vuole far guarire il marito malato, un cieco che vuole acquistare la vista.
Tutte richieste complicate. E tutte hanno un prezzo, che non è mai senza conseguenze.
«Come faccio a sapere che lei non è il diavolo?», chiede la suora all’uomo. «Non può saperlo», risponde.
Davanti a certe richieste atroci, come uccidere o violentare una donna per ottenere quello che si vuole, l’uomo viene accusato di essere un mostro.
La domanda è: fino a dove siamo disposti a spingerci per avere quello che vogliamo?
L’uomo che realizza desideri apre il quaderno e assegna un compito, ricordando che quello che vogliamo non è mai senza conseguenze.
I personaggi che frequentano il locale sono persone comuni, spinte a prendere decisioni e a commettere azioni che toccano i nervi scoperti dell’etica, suscitando nello spettatore come minimo dilemmi morali, a volte categorici rifiuti.
Le storie s’intrecciano tra di loro.
Alla suora viene assegnato il compito, per ritrovare Dio, di rimanere incinta. Sceglie di farsi mettere incinta dal ragazzo cieco, cui è stato assegnato il compito di violentare una donna per riacquistare la vista.
Il padre che vuole salvare la vita del figlio deve uccidere una bambina, mentre l’uomo che vuole andare a letto con la donna della fotografia deve salvarla, quella bambina.
Il film si basa sui dialoghi, al centro del racconto sta la parola. Il lavoro complessivo risulta più vicino al teatro che al cinema.
È un film che incalza, che spossa: i personaggi si susseguono senza sosta, in scene brevi e fitte, che non lasciano il tempo di respirare.
Alla fine, anche il protagonista esprime un desiderio alla cameriera del locale, l’unica persona che gli parla senza volere nulla in cambio. Il suo desiderio è smettere di fare quello che fa. Lei gli prende il quaderno nero e, ribaltando i ruoli, afferma: «Si può fare».
- On 20 Dicembre 2017