Il mondo, un mare di parole
di Gabriella Rinaldi
Capita ogni tanto di avere delle epifanie, rivelazioni veloci e momentanee che sembrano unire alcune conoscenze pregresse e le combinano in un modo nuovo.
Una definizione di creatività, direbbe Annamaria Testa che in un suo articolo sul tema cita il matematico Poincaré:
Un risultato nuovo ha valore, se ne ha, nel caso in cui stabilendo un legame tra elementi noti da tempo, ma fino ad allora sparsi e in apparenza estranei gli uni agli altri, mette ordine, immediatamente, là dove sembrava regnare il disordine […] Inventare consiste proprio nel non costruire le combinazioni inutili e nel costruire unicamente quelle utili, che sono un’esigua minoranza. Inventare è discernere, è scegliere […] fra tutte le combinazioni che si potranno scegliere, le più feconde saranno quelle formate da elementi tratti da settori molto distanti.
Parole razionali dalla cui combinazione, appunto, si prospetta e forse si disegna un mondo di possibilità. A noi la scelta di vedere i nessi possibili, metterli in connessione e poi lasciare spazio e tempo all’atto generativo del pensare e del creare.
Italo Calvino, maestro nel disegnare con le parole, mi ha insegnato più volte che c’è un collegamento stretto, strettissimo, tra ciò che diciamo e ciò che è nella nostra testa. Un concetto banale di cui forse poco spesso facciamo esperienza e sul quale raramente posiamo i pensieri. Nelle sue Lezioni americane, e con la sua solita cristallina chiarezza, ci suggerisce un’idea di esattezza alla quale ambire nella scrittura:
L’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili…un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.
Immagini nitide: questa metafora è un mantra da ripetersi ogni mattina prima di iniziare le attività quotidiane, soprattutto per una persona visiva, appassionata di parole e lingua.
Ci vuole allenamento per imparare a progettare e per scegliere le parole migliori, ma è tutto qui? Oltre all’aiuto di Calvino, che personalmente colloco sul podio degli artigiani delle parole (o designer, come piace dire a me), forse è utile integrare altre conoscenze.
La storia che ci raccontiamo
Partiamo da un presupposto: per quanto possiamo sforzarci di mettere in campo esattezza e precisione, tra ciò che è e ciò che diciamo – quindi che rappresentiamo con le parole o con le immagini – c’è sempre una storia, la nostra.
Per esempio, il mondo è davvero com’è rappresentato nella classica cartina o sul mappamondo (per le poche persone che ancora ne hanno uno in casa)? O meglio, la rappresentazione in scala del mondo corrisponde esattamente all’estensione geografica dei paesi e dei continenti rappresentati?
No, ho scoperto che esiste una distorsione cartografica dovuta al fatto che il mondo ha una forma sferica e che, a esclusione dei paesi vicini all’equatore, più si va verso i poli più la rappresentazione diventa una proiezione e non l’esatta riproduzione in scala delle dimensioni territoriali dei paesi. Se ne ha una dimostrazione dal sito The true size of, in cui è possibile trascinare i paesi verso l’equatore e scoprire che la Russia o la Groenlandia – che vediamo enormi sulla mappa – hanno un’estensione reale diversa da quella a cui la nostra mente è abituata attraverso questa rappresentazione, che è frutto di un sistema di proiezione cartografica. Lo spiega bene questo video.
Tra l’altro Mercatore, lo studioso europeo da cui prende il nome il nostro mappamondo, mette al centro l’Europa e la colloca quasi al nord. C’è chi ipotizza che questo punto di vista eurocentrico abbia influenzato molto la percezione della supremazia di alcuni popoli e abbia comportato così lo sfruttamento di molti paesi considerati invece a sud, più in basso geograficamente e mentalmente. Se ci pensiamo e consideriamo che il mondo è una sfera e non ha lati, è intuitivo pensare che esistono molte altre rappresentazioni possibili a partire da punti di vista diversi dal nostro, che è sempre parziale e soggettivo.
La storia che racconta chi siamo
I primi tempi, quando avevo scelto questo percorso professionale, parenti e affini facevano una gran fatica a comprendere che cosa facessi. Questo succede ancora oggi. Per non parlare del panico che alberga negli occhi dei miei genitori quando arriva la fatidica domanda “cosa fa tua figlia?”. Come dargli torto, anche quando questa domanda la fanno a me, è una fatica incredibile trovare l’etichetta che comprende meglio chi sono come professionista. Creo e scrivo contenuti, faccio grafiche, mi occupo di social. La dicitura che meglio comprende il tutto è communication manager. Gestione della comunicazione dunque è ciò di cui mi occupo, eppure non trovo ancora il corrispettivo in italiano che meglio esprime quello che ho in mente e che in inglese è detto abbastanza bene in due parole. Succede forse perché non abbiamo ancora bene in mente chi sia o cosa faccia il comunicatore o la comunicatrice? Anche solo scriverlo e poi ripetermi che sono una comunicatrice mi suona strano (e pretenzioso).
Ce lo dicono le neuroscienze che i pensieri influenzano quello che diciamo a noi e alle altre persone. E siccome siamo individui complessi, tra le parole che diciamo (o non diciamo) e quello che arriva dall’altra parte esiste una involontaria e inevitabile distorsione. Se pure mi sforzo di spiegarti al meglio cosa faccio come professionista, ci sarà sempre una distanza tra quello che ho intenzione di dirti e quello che ti arriva, perché di mezzo ci sono le convinzioni, le esperienze e tutto ciò che di più soggettivo mettiamo in comune ogni volta che comunichiamo, sia io che tu.
Un conto è la realtà, un altro conto è la rappresentazione della realtà e come la esprimiamo attraverso il linguaggio.
Cosa si vede dalla tua lingua?
Vergílio Ferreira, scrittore e filosofo portoghese, ha disegnato con le sue parole un’idea di lingua:
Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire. Dalla mia lingua si vede il mare. Dalla mia lingua se ne sente il rumore, come da quella di altri si sentirà il rumore della foresta o il silenzio del deserto.
La lingua è un luogo. Di nuovo: una rappresentazione soggettiva, che riflette la nostra storia e quella delle persone con cui entriamo in relazione direttamente o indirettamente.
La lingua è un mare, che prende e che dà. Dal nostro lato della costa il mare si prende i pensieri, le preoccupazioni e le gioie delle persone che gliele confidano. Li avvolge nelle onde in una giornata di sole e poi se li porta chissà dove, verso l’orizzonte, un altrove così bello e inafferrabile.
Dall’altro lato della costa il mare si prende le preghiere, le preoccupazioni e le speranze delle persone che gliele affidano. Li strappa con le onde nel buio della notte e poi li porta chissà dove, verso l’abisso, un precipizio così spaventoso e vicino.
Quelle di Tesfalidet Tesfom, un giovane eritreo sbarcato in Italia nel 2018, però sono state recuperate. Le due poesie trovate nel suo portafogli gli sono sopravvissute e oggi sono state annoverate da Treccani tra i grandi poeti del Mediterraneo. I suoi versi sono finiti nelle antologie delle scuole scrivendo una storia di riscatto, umanità e poesia al tempo stesso.
La lingua è un viaggio. Il viaggio dei tanti Tesfalidet che abitano la terra. Potrei essere io, potresti essere tu, moltitudini così diverse eppure così simili.
Prendiamocene cura, delle moltitudini e delle parole.
- On 9 Aprile 2024