La politica mite non è una politica debole (grazie, caro Presidente)
di Lia Giovanelli
Il presidente Mattarella è puntuale, anzi è in anticipo, alla sua visita a Brescia.
Mentre una soprano intona l’Inno di Mameli e un gruppo di bambini sventola bandierine tricolore, sento un leggero nodo alla gola. Penso al nostro Paese, alla nostra storia. L’Italia. L’unità nazionale, il destino dell’Europa, che può e deve dare ancora tanto.
Il saluto del Sindaco è bello e nei tempi giusti, come i saluti delle altre autorità.
Sale sul palco il Presidente della Repubblica e mentre saluta e inizia il suo intervento, a braccio, risento quell’emozione che fatico a definire, ma che collego a una sorta di orgoglio civico, di appartenenza a un Paese spesso disorientato, in cerca di nuovi equilibri, ma comunque straordinario.
Non sento e non vedo un Presidente poco comunicativo, anzi, sento e vedo un Presidente protagonista, convinto del valore delle cose che ci vuole trasmettere.
Sono molto colpita quando invoca una visione mite della politica: «La politica mite non è una politica debole, al contrario è propria di chi è convinto della forza e del valore delle proprie idee e non pretende di imporle. La mitezza è un atteggiamento che induce a cercare ancora una volta le ragioni che uniscono e non quelle che dividono».
Certo. Ma mi colpisce soprattutto che queste cose non siano dette in modo “pacato”: nel pronunciarle, il Presidente alza la voce, anche solo di un tono, e vi aggiunge fermezza, mentre auspica mitezza.
Continua ricordando le sfide che coinvolgono il nostro Paese, l’innovazione e la crescita del lavoro, la conoscenza e la qualità, l’ammodernamento del modello sociale, tutte condizioni indispensabili per guardare al domani e prepararci con coraggio.
Continua: «La lunga crisi economica ha seminato incertezze, affanni, preoccupazioni, qualche paura. La risposta, che va data a questi sentimenti, senza sottovalutarli, sta nell’affrontare il tempo nuovo con coraggio e serenità, senza rinunciare alla civiltà che abbiamo costruito, senza illuderci che l’arroccamento in noi stessi possa renderci più forti. Ogni crisi genera nuovi equilibri. Dobbiamo utilizzare meglio ciò che abbiamo a disposizione».
La conclusione è tutta per ricordare, a cinque anni dalla scomparsa, Mino Martinazzoli – giurista, ministro, sindaco (e sappiamo, per il Presidente, caro amico), e il lungo applauso finale sembra comprendere anche l’atmosfera generata dalle sue parole. Scende dal palco e si avvia all’uscita, sorridendo e stringendo mani.
Fuori dal Teatro Grande molti cittadini lo stanno aspettando: negoziando con la sorveglianza che lo vorrebbe subito in macchina, il Presidente si avvicina a chi lo vuole salutare, accarezza le teste dei bambini, abbraccia le persone anziane, ringrazia per i sorrisi e l’affetto che riceve. Decide di avviarsi a piedi al ristorante che lo ospiterà per pranzo (un pranzo privato, con pochi amici), sempre circondato da cittadini sorridenti e guardie preoccupate.
Il sole splende sulla passeggiata: grazie, caro Presidente, per averci ricordato che la politica mite non è una politica debole.
- On 1 Ottobre 2016