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Sinestesia, parole e musica: intervista a Alessandro Lucchini

di Tania Paradiso

Alessandro, tu che sei un linguista, o come ti piace definirti un “operaio delle parole”, puoi raccontarci che cos’è la sinestesia?

La sinestesia, insieme alla metafora, è la più importante figura retorica consegnataci dal mondo classico. Il mondo classico è quello che ha studiato la retorica, intesa non in accezione negativa, ma come studio delle relazioni umane, quella che oggi si direbbe la scienza della comunicazione.

La parola sinestesia viene dal greco (syn, “insieme” e aisthánesthai, “percepire”) e significa sentire – con, cioè sentire in un modo più complesso che non solo attraverso un unico senso.
È la capacità di usare in un’espressione descritta, parlata, cantata, dipinta, insomma in qualunque forma espressiva, dei ganci che sollecitano più sensi. Questi ganci stimolano i canali percettivi umani, cioè i 5 sensi, più il sesto, in un modo più ricco. Il più ricco possibile. Per esempio se invece di dire “quella cosa è gialla” dico “quella cosa è giallo caldo” sollecito due sensi: la vista e il tatto. Così come se affermo “è un suono penetrante” attivo sia l’udito che il tatto.

Che ruolo ha la sinestesia nella comunicazione?

Se quando parlo, scrivo o in generale comunico uso espressioni che entrano nella percezione dell’altro coinvolgendo più sensi, creo una rappresentazione mentale nel cervello del destinatario che risulta più ricca di quella che riuscirei a costruire attraverso un senso solo.
Se riesco a far percepire colori, immagini, dimensioni, luci – che sono informazioni visive – suoni, ritmi, melodie, armonie – cioè sensazioni auditive – e percezioni olfattive, gustative e tattili coinvolgendo quindi i cinque sensi e riesco, infine, anche a toccare i suoi stati d’animo, le sue emozioni – cioè il sesto senso – creo una rappresentazione più ricca nella sua mente.
I comunicatori efficaci sono quelli che abbracciano con un discorso, con un’espressione, una mail o un messaggio più sensi di un uditorio.
Si può imparare a usare la sinestesia in maniera efficace quando si comunica.
Per esempio, se capisco che la tua modalità percettiva è prevalentemente visiva userò espressioni visive: come la vedi? che quadro ti sei fatto della situazione? c’è una luce particolare; cambiamo il punto di vista; vorrei sottolineare questo concetto.
Se, invece, so che la tua comprensione è prevalentemente auditiva cambierò canale, mi metterò in una modalità auditiva e ti dirò: senti; cerchiamo di ripetere questo concetto; ascoltiamo un’altra campana; questa cosa è musica per le mie orecchie.
Se capisco che la tua modalità predominante è cinestesica, cioè è olfattiva, tattile, gustativa ed emotiva, lavorerò su quei canali percettivi. Alcuni esempi: sento odore di bruciato; questa cosa è disgustosa; sento un dolore profondo; tutto questo mi tocca nell’intimo.
Se parlo a un pubblico ampio, usare la sinestesia può risultare davvero efficace. Uno degli esempi più illustri viene dal maestro dei maestri, Dante Alighieri: i primi nove versi dell’Inferno ( “nel mezzo… scorte”) sono un perfetto esempio di sinestesia. Dante riesce, in pochi versi, a richiamare tutti i canali percettivi: quello visivo, auditivo e cinestesico. Ha creato una sinestesia che rende il suo messaggio attraente per un vasto uditorio come quello a cui si stava rivolgendo.
Così io, se devo parlare con un pubblico ampio dirò per esempio “Possiamo vederci alle 5? Devo parlarvi di una cosa che mi sta molto a cuore” Le parole vederci, parlarvi e cuore agganciano i tre ambiti fondamentali: quello visivo, auditivo e cinestesico. Ho creato una sinestesia, cioè un corto circuito di più sensazioni in un’unica espressione.
Questa capacità di interessare più sensi aumenta l’impatto dell’espressione stessa. Il cervello del destinatario reagisce con più ambiti neuronali perché vengono coinvolti più campi sensoriali e la sua percezione è più completa, più profonda.

Da grande appassionato di musica quale sei, puoi spiegarci qual è l’incontro sinestesico tra musica e parole?

Vediamo prima qual è l’incontro tra sinestesia e musica.
La musica è sinestesia per definizione. La musica si vede – perché le partiture sono testi scritti – si sente – cioè si ascolta con le orecchie – e si sente anche dentro con l’anima e con il cuore – e poi la musica si fa, cioè si produce – si schiacciano tasti, si pesta sui tamburi, si soffia in una tromba, si accarezza una corda di violino, si abbraccia una chitarra.
Se pensiamo all’accordo sinestesico tra musica e parole, questo è molto vicino a quello della poesia di cui dicevamo prima. Se prendiamo per esempio una delle canzoni più famose del ‘900, Blowing in the wind di Bob Dylan, e scorriamo le prime frasi, ci accorgiamo che le parole diventano immagini che ci trasmettono emozioni, ci fanno sentire suoni: vediamo tutte le strade che l’uomo deve percorrere prima di sentirsi chiamare uomo (How many roads must a man walk down before you call him a man?), sentiamo l’odore dei mari che la colomba bianca percorre prima di poter finalmente riposare sulla sabbia ( ‘n’ how many seas must a white dove sail before she sleeps in the sand?), udiamo il suono dei cannoni che volano nell’aria (‘n’ how many times must the cannon balls fly before they’re forever banned?) prima di essere bandidi per sempre.
Così i Beatles, con le loro canzoni, ci hanno offerto esperienze sinestetiche uniche. Let it be, una fra tutte. “When I find myself in times of trouble Mother Mary comes to me speaking words of wisdom: let it be. And in my hour of darkness, she is standing right in front of me, speaking words of wisdom: let it be”.”Quando cerco me stesso in periodi difficili, Madre Maria viene da me dicendo parole di saggezza: lascia che sia. E nella mia ora buia è proprio di fronte a me, pronunciando parole di saggezza: lascia che sia”.
In poche righe è racchiusa la sensazione del dolore, del disagio, l’apparizione di Maria, il conforto delle parole sagge che lei pronuncia. Parole, significanti auditivi che evocano immagini e sensazioni.
Un esempio moderno preso dalla musica italiana: Temporale di Jovanotti. Questa canzone è paradigma che ricorda, con metodi dei tempi nostri, l’inferno di Dante. “Gli occhi non sanno vedere quello che il cuore vede. La mente non può sapere quello che il cuore sa. L’orecchio non può sentire quello che il cuore sente. Le mani non sanno dare quello che il cuore dà.”
Occhi, mente, orecchie, mani. C’è tutto la neurologia, il sistema neuro percettivo, sollecitato in maniera sinestesica da un paragrafo, una strofa .
Chiunque ami la musica, sia come produzione che come fruizione, quindi sia nel caso in cui la produca e la suoni sia che la ascolti semplicemente, ama la musica in modo sinestetico. Arrivano delle immagini, delle parole, delle melodie, delle armonie, dei ritmi e ci attraversano delle sensazioni a volte fisiche di piacere, a volte di dispiacere o dei ricordi. Capita che ascoltiamo una canzone e piangiamo per l’emozione di gioia o di dolore. Sentiamo una canzone e ci tornano delle immagini di luoghi dove siamo stati bene o male e basta anche solo una parola o il titolo di un brano per evocare questo turbinio sensoriale che è la sinestesia.

  • On 25 Luglio 2015
Tags: palestra della scritura, sinestesia, tania paradiso
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