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Cinque mondi

di Chiara Lucchini

Roberto Benigni, Bernardo Bertolucci, Gabriele Salvatores, Paolo Sorrentino, Giuseppe Tornatore. Cinque mondi, cinque modi di raccontare il cinema, cinque differenti visioni: sono i mondi di cinque dei nostri premi Oscar che nel documentario di Giancarlo Soldi raccontano i primi film visti nella loro giovinezza, la nascita dell’amore per il cinema, gli esordi, i registi che hanno influenzato il loro immaginario, il senso di fare cinema.
È in corso la Mostra di Venezia: parliamo di cinema.

Interessante, eh, questo nostro mondo cinematografico. Il nostro cinema, il cinema italiano. Un cinema del quale si dicono tante cose. Lasciamo pure che le dicano. Noi continuiamo a lavorare nel nostro piccolo. Piccolo. Chiamalo piccolo. Secondo nel mondo e primo in Europa. Che poi, se è tanto piccolo, perché ha nel mondo tutta questa rinomanza? Eh?
Alberto Sordi

Una stanza dei giochi

“Una stanza dei giochi”, così Paolo Sorrentino definisce il cinema. E in quella stanza i giochi non li scegli: te li prendi e li usi tutti quanti. Così lui faceva da bambino, e dato che fare cinema non è altro che protrarre questo stato di perenne infanzia, oggi prende tutti i giochi possibili.

I giochi messi a disposizione dal cinema sono le immagini, la musica, la parola. Ma anche il rapporto quotidiano con la troupe, con il montatore. E il caso, l’improvvisa apparizione di una comparsa che non doveva stare lì e invece sta lì per errore e da quell’errore ne trai fuori qualche cosa.
Il cinema è un bel recipiente dove dentro ci può entrare un po’ di tutto. Possono entrar dentro le altre arti, e tutte le sfumature della vita. Per questo è un’arte divertente, la più giocosa, e non a caso è la più popolare.
Sorrentino parla poi di una sorta di sdoppiamento che provano tutti quelli che fanno il suo lavoro, nel raccontare cose orrende della vita italica: mentre da cittadino ne sei indignato, da raccontatore di storie ne sei profondamente attratto. Che è anche l’unico modo per fare film: provare affetto per ciò che si racconta.
Gabriele Salvatores spiega come il cinema fa entrare il regista in un mondo che lo coinvolge totalmente. Lui, quando sta girando un film, si accorge che cambia il proprio abbigliamento a seconda dei personaggi, del protagonista. Comincia a sentire solo un certo tipo di musica, a leggere solo un certo tipo di cose. Questo è importante, perché sei dentro la cosa che stai raccontando. Ed è pericolosissimo, perché quando questo finisce ti ritrovi nudo, e solo.

Un’ossessione per la bellezza

I cinque registi raccontano dei primi film visti da bambini, di quando hanno deciso di fare questo lavoro, dei registi da cui sono stati influenzati.

Roberto Benigni, a proposito del linguaggio della macchina da presa, parla di “un’ossessione per la bellezza”. Che cosa hanno insegnato a loro e a noi quei grandi registi? Una cosa enorme, mirabile, gigantesca: ci hanno insegnato a guardare.

Giuseppe Tornatore ricorda il tipo di proiezione cinematografica con la quale si confrontava da ragazzo frequentando un cinema di provincia, da cui deriva l’eclettismo della sua filmografia.
A Sorrentino da bambino piaceva molto la commedia americana degli anni Quaranta-Cinquanta, che guardava sua madre. La commedia scintillante, dalla quale ha provato a imitare i dialoghi brillanti e spumeggianti. Di quel cinema gli è rimasto il fatto che i personaggi sanno sempre quello che devono dire: il contrario di quello che avviene nella vita.
Ma al cinema, in realtà, imparavi i valori della vita. Tornatore ricorda i film di Sergio Leone: vedevi due che per tutto il film si erano cercati per uccidersi a vicenda, e quando finalmente si incontravano faccia a faccia, prima di spararsi aspettavano che finisse la musica. Una cosa assolutamente irrealistica, folle. Però capivi che nella vita poteva esserci un approccio diverso alle singole esperienze nelle quali poi tu venivi coinvolto. Che un istante poteva essere vissuto come se fosse un’eternità e viceversa.

Il cinema è un linguaggio apparentemente semplice, che però ti comunica valori molto complessi, difficili: è questa la grandezza del cinema. Quindi ti divertivi, ti distraevi, passavi giornate intere al cinema, e imparavi i valori della vita, imparavi come dovevi guardarti intorno.

E poi certi film mitologici in cui improvvisamente arrivavano dei totali con l’esercito che avanzava, che era sempre lo stesso: c’erano delle immagini che erano state girate e venivano messe in più film. E tu li riconoscevi: “Ah questo è lo stesso esercito che si è visto tre domeniche fa nell’altro film”. Questa dimensione un po’ scalcagnata rendeva molti simpatici questi film, e molto vicini alle tue problematiche di tutti i giorni: bisognava tirare a campare, inventarsi. Un sistema per vivere con i mezzi che si aveva, era la stessa prospettiva di quel cinema lì.

I registi e i film più amati

Sorrentino cita Monicelli, Risi, Fellini, Antonioni, De Sica, Moretti, Bertolucci. E poi la commedia all’italiana, nella quale si muore, si soffre, si prende atto dei propri limiti e della pochezza dell’essere umano: tutte cose in teoria estranee alla commedia. È stata un grande bacino di sperimentazione, molto più di tanti film d’autore, che usavano la sperimentazione in maniera pretestuosa.
Salvatores dice di aver sempre amato Bertolucci: è lui che, negli anni in cui il cinema italiano stava perdendo dei colpi, è riuscito a riportarlo all’attenzione internazionale e ad avere un respiro molto ampio.
Tornatore parla di Umberto D.: come dimenticare quell’uomo che prova a chiedere l’elemosina e quando passa il primo tizio che prova a dargliela ci ripensa, per l’imbarazzo, e finge di vedere se sta piovendo o meno?
Anche Benigni parla di Bertolucci, che con la macchina da presa scrive: la tira fuori dal taschino, è proprio una lingua, è solo sua, inimitabile. E poi Marco Ferreri, che è sempre stato un regista emarginato, con un grande bombardamento all’estero, amatissimo dai Cahiers du Cinéma, lo volevano intervistare in ogni angolo. Poi Germi, che – dice – è forse l’unico che sa usare lo zoom senza essere volgare. E Monicelli, Risi. E parla ancora di bellezza: “Eravamo in un gorgo. Un gorgo di bellezza. C’era una produzione straordinariamente bella”.

Quando è nato l’amore per il cinema?

A Bertolucci la voglia di fare cinema la diede la visione de La dolce vita di Federico Fellini, un film su una Roma che secondo lui non c’era. Dal nulla creare qualcosa che toglie il fiato, perché in qualche modo precede o preannuncia la nascita, nella realtà, di cose che nel film erano state capite in anticipo.
Per Sorrentino con Nuovo cinema paradiso di Tornatore, un film che ha visto da ragazzo e che gli ha fatto capire la bellezza e l’ampiezza del racconto.
Salvatores è arrivato al cinema italiano, a quello storico e importante, solo in un secondo momento. Quello che lo ha coinvolto di più è stata la grande stagione degli anni Sessanta: da una parte la commedia all’italiana, dall’altra il grande cinema visionario di Fellini e quello di Antonioni.
Per Tornatore fu decisiva la visione di Salvatore Giuliano di Francesco Rosi. Vissuto a Bagheria fino ai 25 anni, vedeva sullo schermo la gente muoversi e parlare come si muoveva e parlava intorno a lui, e molte di quelle situazioni le aveva viste: era esattamente come nella vita reale. E quel film, proprio perché rappresentava un mondo che ti sembrava di conoscere bene, ti insegnava a capire di quel mondo ciò che non avevi mai capito. Era troppo importante, troppo grande questa esperienza perché tu uscissi dal cinema così come eri entrato. Quando Rosi fece questo film, in televisione era vietato pronunciare la parola “mafia”. In un mondo in cui quella parola non la si poteva pronunciare, un cineasta realizza un film – non senza difficoltà – in cui invece parlava apertamente di questo fenomeno. Salvatore Giuliano è stato il film che ha penetrato definitivamente quella tematica. E ha innescato un meccanismo di conoscenza e di presa di coscienza, soprattutto. Quel film suscitò un tale dibattito, a livello nazionale, da determinare in poco tempo la formazione della prima commissione d’inchiesta parlamentare sulla mafia. Fu quel film a dare una spallata alle resistenze che c’erano nel mondo politico. La grandezza e la forza del cinema.

Gli esordi

L’esordio di Benigni deriva dal fatto che lui voleva fare le comiche finali, come facevano Stanlio e Ollio, e che non si facevano più: alla fine del film seguiva una comica, una farsa. Non glieli potevano produrre perché non avevano un ritorno. Ma lui aveva già scritto tanti episodi di farse finali, com’era una volta agli esordi del cinema, che poi ha fatto diventare un film a episodi: Tu mi turbi.
Per Salvatores, con i primi film (Kamikazen, Marrakech Express) c’era la voglia di provare a fare un cinema totalmente fuori dagli schemi industriali tradizionali di produzione.
Bertolucci racconta del suo incontro con Sergio Leone: “Perché tu ieri eri al primo spettacolo de Il buono, il brutto e il cattivo?”. Bertolucci gli spiega che il suo cinema gli piaceva molto, che era ansioso di vederlo, che a ogni film correva al primo spettacolo. “Ma perché ti piacciono?”. “I tuoi western mi piacciono perché mi piace come filmi il culo delle cavalle. Solo John Ford lo fa così”. Leone gli chiede: “Ma che vuoi dire?”. Bertolucci: “Tutti – anche i western all’italiana, anche quelli buoni – filmano i cavalli di profilo, perché sono meravigliosi. Mentre invece solo tu e John Ford sapete filmare queste enorme cosce dei cavalli”. E allora Leone: “Va bene, tu scriverai il mio prossimo film. Ti dico già come si chiama: C’era una volta il West”.

Approcci diversi

A Salvatores non piace la parola “autore”, perché gli autori sono tanti in un film. Non è necessario che il regista scriva anche la sceneggiatura, ci sono grandi registi che non l’hanno mai fatto.
Sorrentino, invece, la sceneggiatura non riesce a delegarla ad altri, perché è una delle partite più importanti sulle quali si gioca il buon esito di un film. Non è che non apprezzi le sceneggiature di altri, ma non riesce a capirle, a comprenderle. Insieme alla scelta degli attori, questa è una tappa rigida. Mentre la regia e il montaggio sono flessibili, ti puoi permettere di cambiare idea all’ultimo secondo e probabilmente le cose andranno meglio, sceneggiatura e scelta degli attori devono essere il frutto di una scelta accorta e accurata, e quindi sono i luoghi in cui si prende più tempo.

Un po’ di cialtroneria

Gli americani per “girare” e “sparare” usano la stessa parola: “to shoot”. Indica proprio il centrare un bersaglio. Noi giriamo: però questo ti lascia più libero.

Salvatores racconta che per Marrakech Express avevamo mezza giornata a Barcellona per girare una scena. Era prevista la rambla col sole e pioveva. A quel punto ti metti in una stanzetta, riscrivi la scena e la ambienti in un supermercato, al chiuso. Questo è molto bello nel cinema. Ed è la differenza col cinema americano, forse un po’ un suo difetto: la pretesa di controllare tutto perfettamente.
Anche Sorrentino, che ha girato negli Stati Uniti, ha riscontrato un livello di competenze e di settorializzazione esasperato. Questo lui non lo ritiene un bene, perché si soffoca drasticamente il livello di improvvisazione. Tutto dev’essere stato prestabilito e preventivato, si può improvvisare poco. Forse un certo tasso di cialtroneria ha anche contribuito al successo del cinema italiano. Poi, come tutte le cose, in dosi eccessive danneggia. Però è stato anche la nostra fortuna.

La civiltà dell’immagine

Benigni parla della cosiddetta civiltà dell’immagine, e non ne parla bene. Ci ha rovinato l’occhio, ce l’ha bombardato, viziato, seviziato. Perché sono almeno quarant’anni che siamo in un vortice infernale di immagine. È una rovina per tutti i cineasti: perché quando lui andava al cinema da ragazzo l’immagine era una cosa onirica, andava nel profondo, scatenava dei pensieri. Adesso no, l’occhio è stato bombardato, fatto a brandelli, non è più in grado di distinguere la realtà profonda, onirica, enigmatica dell’immagine.

Parlare di se stessi e vedere le proprie ombre

Che cosa vuol dire fare cinema? Perché farlo?
Fare il cinema, come anche scrivere, è soprattutto parlare di se stessi. E attraverso se stessi descrivere gli altri – dice Bertolucci.
E, aggiunge Salvatores, il cinema non è solo mostrare, voglia di raccontare qualcosa. È anche l’esigenza e il modo di fare i conti con te stesso. Non solo far vedere al pubblico queste ombre proiettate su una parete, come diceva Platone, ma anche vedere le tue ombre, i tuoi fantasmi, proiettati su quella parete.

Per chi volesse guardare il documentario Cinque mondi, è disponibile su raiplay.

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