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Parlare: fare o conoscere?

di Chiara Lucchini

Sempre in Palestra, anche per l’inizio di questo nuovo anno: riscaldamento, addominali, piegamenti, tecniche fondamentali ecc. Ma per allenarsi bene occorre fare anche buoni giri in biblioteca. Ecco che leggiamo Tullio De Mauro, che ci propone alcune riflessioni sul linguaggio, del quale, attraverso le definizioni che ne hanno dato gli studiosi nel tempo, resta palpabile l’intrinseca eterogeneità. Dunque: l’uso della parola appartiene all’ambito del fare o a quello del conoscere?

Questo articolo riprende alcuni spunti da Prima lezione sul linguaggio, di Tullio De Mauro.

Che cos’è il linguaggio?

Nel Novecento e fino a oggi molti studiosi hanno cercato di rinchiudere la realtà del linguaggio in una formula unica e unificante. In queste definizioni, ora uno ora un altro aspetto o carattere del linguaggio ha attratto l’attenzione teorica ed è stato presentato come unica condizione necessaria e sufficiente.

Benedetto Croce definiva il linguaggio come espressione.
André Martinet, grande linguista francese, come facoltà di adoperare segni doppiamente articolati: suddivisibili cioè in “monemi”, parole o parti di parole dotate di una faccia significante e di un loro significato, e con la parte significante ulteriormente articolata e scomponibile in successivi fonemi.
Noam Chomsky ha concepito il linguaggio come un dispositivo innato in grado di “generare” (nel senso matematico del termine, e cioè non solo produrre, ma anche intendere e saper descrivere in modo ordinato e strutturato) un numero potenzialmente infinito di frasi a partire da un numero limitato e chiuso di regole grammaticali e di mezzi lessicali.
Paul Grice vi ha visto la capacità di dar luogo a processi di inferenza.
Luis Prieto la facoltà di adoperare segni i cui significati sono di volta in volta in un rapporto di esclusione, di completa inclusione o di più o meno estesa intersezione o sinonimia.
Lo psicologo americano Steven Pinker ne ha sottolineato ed esaltato il carattere di istinto biologico.
Per Paul Watzlawick (Il linguaggio del cambiamento, Feltrinelli, 1978) determina la nostra “immagine del mondo”, la sintesi fra la realtà oggettiva ed esterna, e l’altra, che è il risultato delle nostre opinioni sul mondo: da tale sintesi derivano convinzioni, pregiudizi, valutazioni e distorsioni.

Queste formule hanno diversi meriti.
Il primo è quello di aver avvertito la necessità teorica di dare una caratterizzazione specifica del linguaggio rispetto ad altre forme dell’attività umana e della stessa comunicazione.
Un secondo merito è quello di aver avviato una riflessione sulla realtà del linguaggio, inducendo anche altri ad argomentare le diverse formule e a segnarne i limiti. In questo modo è venuto alla luce ciò che le formule rischiano di lasciare nell’ombra: la complessità intrinseca e la eterogeneità costitutiva del linguaggio.

Riflettere sul linguaggio pone infatti il problema di tenere insieme due esigenze contrastanti: dare un carattere specifico al linguaggio e, insieme, riconoscerne e assumerne nella teoria e definizione la intrinseca eterogeneità.

Indagando il fare

Gli antichi Greci distinguevano, nella loro lingua prima ancora che nelle loro filosofie, tra pràxis «azione» e gnosis «conoscenza», tra fare e conoscere. Distinzione mantenuta nelle età e nelle culture successive.
I Greci individuavano poi un’ulteriore distinzione nella sfera del fare: da un lato il semplice agire che si esaurisce nei suoi effetti, dall’altro l’agire che si concreta nel porre in essere un oggetto, una cosa nuova, secondo una tékhne, una tecnica; da un lato il puro e semplice pràssein, il fare; dall’altro il produttivo e tecnico poiein, fabbricare, costruire, creare.

La domanda è: a quale dei due ambiti appartiene l’uso delle parole: al fare o al conoscere?

Appare evidente l’aspetto interattivo dell’uso delle parole. In quanto interattivo l’uso delle parole si configura come un agire. È un agire e interagire quando produciamo parole per farci intendere, quando riceviamo e intendiamo le espressioni altrui, ma anche quando le richiamiamo alla memoria e le usiamo in un colloquio interiore per ragionare mentalmente.
Nella considerazione comune e nei proverbi, il dire non gode di buona reputazione rispetto al fare: c’è chi chiacchiera, c’è chi agisce. Potremmo ribaltare questa sottovalutazione ricorrendo agli alti esempi del dire e dello scrivere, alle grandi opere dell’ingegno affidate alla parola scritta o parlata. O ricordare, come Antonio Gramsci, quanta fatica costano la lettura e la comprensione di tali opere.
Ma è più utile osservare la fatica dei piccoli nel loro cammino verso il dire. In questo sono ancora una guida preziosa le ricerche di una grande naturalista e psicologo svizzero, Jean Piaget (1896-1980). Piaget ha mostrato che nell’esercizio della vocalità i piccoli attraversano diverse fasi: la prima iniziale è quella dell’attenzione globale ai segnali vocali materni; di qui i piccoli passano a una fase più esternamente attiva, di pura ripetizione imitativa del pianto di altri neonati; poi a una terza fase di produzione di suoni finalizzata al puro piacere dell’esercizio vocale. La quarta fase è quella del lungo, prezioso silenzio: i piccoli ascoltano gli adulti sezionando il dire che ascoltano e, di solito, varcati gli otto mesi, si avventurano nella quinta fase, quella dei primi balbettii che ripetono sensatamente alcune parole catturate dagli adulti. Ma è necessario un passo ancora più lungo perché guadagnino la soglia delle prime espressioni in forma di frase. I piccoli cominciano a produrre realizzazioni di frasi quando non sanno fare ancora nient’altro di tecnicamente disciplinato. Questo loro realizzare frasi è il loro primo poiein, il primo agire finalizzato a porre in essere secondo regole i pur fuggevoli, ma preziosi, prodotti sonori.

Il linguaggio è dunque un fare, un poiein?
Nella seconda metà del Novecento la linguistica ha studiato questa dimensione sia sotto il profilo sociologico (è nata così la sociolinguistica) sia soprattutto sotto il profilo dello studio della conversazione, delle interazioni sul campo.
La grande ondata di studi di linguistica pragmatica degli anni Sessanta-Ottanta del Novecento, che ha messo l’accento sulla dimensione interattiva dell’uso delle parole, potrebbe indurre a una risposta positiva alla domanda: “Il linguaggio è dunque un fare?”.
Ma a rimettere il tutto in discussione stanno i molti aspetti che sembrano connettere l’uso delle parole all’ambito della conoscenza.

Indagando il conoscere

Questa connessione è stata colta in diverse prospettive.
Nel positivismo logico o neopositivismo, movimento inaugurato da Ludwig Wittgenstein con la sua prima opera, il Tractatus logico-philosophicus del 1921/1922: al linguaggio viene riservato il ruolo di mediatore indispensabili per la conoscenza. Nel Tractatus la comprensione di proposizioni vere o false è l’accesso alla conoscenza della realtà.

Per Antonio Pagliaro, il linguaggio è una forma di conoscenza e lo è a doppio titolo. In primo luogo lo è perché per parlare e intendere altri che parlano occorre far ricorso alle parole di una lingua con i loro significati, che Pagliaro definiva “valori saputi”, nozioni generiche acquisite nel tempo e messe in comune nella lingua e nella cultura di una comunità. E in secondo luogo lo è perché col singolo atto linguistico, grazie al ricorso ai “valori saputi”, chi parla fa chiaro a sé e rende conoscibili agli altri un particolare contenuto di coscienza.

Un’attività semiotica

Negli ultimi scritti di Pagliaro c’è un accenno alla natura semiotica del linguaggio.
Parlare significa sempre progettare o intendere segni, dotati di una faccia esterna, a cui gli Stoici antichi prima, poi Ferdinand de Saussure e la linguistica moderna hanno dato il nome di significante (per i filosofi greci semainon); e dotati di una faccia interna, che ne è il contenuto e che diciamo significato (semainòmenon).

Questo ha tutta una serie di implicazioni.
Una implicazione terminologica è cominciare a definire l’uso delle parole come una forma di attività semiotica, o più semplicemente una semiotica.
Gli antichi medici greci avevano parlato del semeiotikòn: l’arte di riconoscere i semeia, i segni o sintomi delle malattie.
È stato John Locke (1632-1704) a usare il termine con riferimento al linguaggio. Nel concludere il suo Essay Concerning Human Understanding (1689), in cui un libro è dedicato alle parole e al linguaggio, Locke propose una partizione delle scienze in tre grandi domini: quello della conoscenza della natura; il dominio della prassi, della politica e dell’etica; e infino la «dottrina dei segni» o semeiotiké, che, poiché i segni più consueti sono parole e discorsi, potrebbe anche chiamarsi logiké, «dottrina del lògos».
La scelta di Locke maturò tra Settecento e Ottocento e nel Novecento si è affermato l’uso di “semiotica” sia per la scienza dei segni linguistici e non linguistici sia per la stessa attività di produzione e comprensione dei segni.

L’uso delle parole è, dunque, una forma di attività semiotica, o una forma di semiosi.
Riconoscere nell’uso delle parole una forma di semiosi comporta il sottrarsi alla necessità di una risposta rigida ed esclusivistica alla domanda posta sopra: il linguaggio è teoria o prassi, conoscenza o azione?
La semiosi si colloca in un suo spazio specifico.
Ogni semiosi presuppone e trasferisce, ma anche elabora conoscenza; e in ciò e con ciò presuppone e determina azioni e interazioni tra i partecipi della semiosi. Si connette all’ambito del conoscere e a quello dell’agire senza dissolversi nell’uno o nell’altro.
  • On 10 Gennaio 2019
Tags: attività semiotica, Chiara Lucchini, conoscere, fare, parlare: fare o conoscere
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