Quante sfumature di rosa?
di Alessandro Lucchini
Partire dalle parole, perché è dalle parole che si trova un’infinità di sfumature di rosa. “Parola” è un sostantivo di genere femminile. Come molte altre parole importanti. E allora perché nel nostro Paese si fa ancora così fatica a ridurre il divario di genere? La tecnologia fa la sua parte, ma anche il linguaggio ha il suo ruolo: le parole influenzano il pensiero.
Ciao a tutte/i.
Se potete, subito, per ispirazione, guardatevi questo video: tre minuti di straordinaria fantasia femminile.
Ok, e ora partiamo.
Tempo fa mi è stato chiesto da Nuvola Rosa, l’evento Microsoft dedicato allo sviluppo personale e professionale delle donne, di parlare del valore del linguaggio. In quel contesto, ovvio. Il linguaggio come strumento per riflettere, prima ancora che per comunicare.
Perché sì, i cavalier, l’arme, gli amori… Ma è soprattutto le parole che si trova un’infinità di sfumature di rosa.
Solennità, eleganza e insieme dissacrazione. E poi sorpresa. Precisione e stravaganza. Complessità e leggerezza. Tutte parole di genere femminile. Come rete, tecnologia, scuola, università, specializzazione. Impresa, pubblica amministrazione. Professione, famiglia, conciliazione.
E allora com’è che si fa ancora così fatica nel ridurre il divario di genere nel nostro Paese?
La tecnologia sta facendo la sua parte. Ma vediamo quale parte può giocare il linguaggio.
Change your words, change your world, dice il bellissimo spot di un’agenzia di comunicazione. Forse non bastano le parole per cambiare il mondo, ma di certo possono fare molto per migliorarlo un po’. Le parole non sono solo espressione del nostro pensiero: influenzano il pensiero. Il nostro, e quello degli altri. Hanno grande responsabilità. Meritano attenzione, cura, rispetto.
Abbiamo studiato negli ultimi anni, con alcuni colleghi, gli stereotipi del linguaggio sessista. Dal più generico …è/non è roba da donne, alle espressioni che sono frutto di convinzioni molto antiche – i diritti dell’uomo, uomo di mondo/donna di mondo – all’infinito dibattito sui nomi delle professioni.
Perché il “segretario” è un ruolo importante di partiti e organizzazione, mentre la “segretaria” è quella che batte le lettere e prepara il caffè? Perché le giuriste si fanno chiamare più spesso “avvocato” che “avvocata”, che è un aggettivo, o meglio, un participio passato (advocatus, advocata, colui/colei che è chiamato/a a…), e quindi va collegato al genere della persona? Come si chiama “il medico donna”? dottora? medica?
E poi ministra, professora, assessora (sì, ok… non suona, ma è solo questione di orecchio; Angela Merkel, però, è cancelliera). E poi presidente, presidentessa (no dai!), e ancora studente/studentessa, che è un semplice participio, quindi potrebbe starsene uguale per lui e per lei. E poi la vigilessa (aiutooo).
Ma una battaglia centrata su ministra e assessora avrebbe respiro corto. Sarebbe poco capace di change the world. Le società si evolvono su linee di pensiero più ampie. E quello che stiamo vivendo è un momento magico per la riduzione del divario di genere in tanti campi dell’umanità. Magari anche con accelerazioni brusche, magari anche con provocazioni.
Interessante, per esempio, il caso dell’università di Lipsia. D’accordo, è solo un esperimento. Però molto significativo. Tempo fa il rettore ha stabilito, d’imperio, che per un mese in tutti i documenti – circolari, locandine, bandi, certificati, persino le mail – si sarebbe parlato solo al femminile. Tutte le parole che al plurale maschilizzano entrambi i generi – i docenti, gli studenti, i ricercatori ecc. – per un mese sono diventati le docenti, le studenti, le ricercatrici. Non “le docenti e i docenti”. No, no. Le docenti, per intendere maschi e femmine. Possiamo immaginare l’effetto. Tradizioni linguistiche secolari scassate, d’emblée. E mica per fare rivoluzioni. Giusto per pensarci un po’.
Sul piano stilistico, poi, alcuni anni fa una ricerca ci aveva già indicato i tratti peculiari del linguaggio femminile, in particolare nello scrivere. Le differenze appaiono abbastanza nette.
Gli uomini prediligono nomi comuni, oggetti, numeri; usano pochi aggettivi, scelgono parole dal significato esplicito, proposte argomentate, concrete, elenchi, affermazioni presentate come fatti. Seguono strutture induttive (effetto/causa, particolare/generale). Temi oggettivi: lavoro, denaro, sport.
Le donne usano molti pronomi personali, molti sostantivi e aggettivi qualificativi. Stile immediato, informale, teso a creare solidarietà con il lettore. Testi più sintetici, pur con frasi più lunghe e profonde. Struttura logico-deduttiva (causa/effetto, generale/particolare). Temi personali, emozioni, stati d’animo, dubbi, incertezze, bisogni. Schematizzando, si potrebbe dire che gli uomini parlano delle cose, le donne parlano delle persone.
E analizzare le parole, più in generale, mette in luce le caratteristiche femminili nella comunicazione: capacità di ascoltare, di cogliere i processi e le sequenze logiche di un ragionamento. Comprensione dell’esperienza altrui, sintonia, intuito, ricchezza di emozioni. Lavorare sul linguaggio è infatti cogliere il passaggio tra i nostri pensieri e quelli altrui; e scegliere parole che includono, invece di escludere; che rispettano, invece di attaccare.
È per questo che dalle donne ci si aspetta sempre di più. E dalle donne di ogni paese, di ogni luogo, di ogni tempo, non solo da quelle super, come Astrosamanta 🙂
- On 19 Giugno 2015