Soffocare nella nebbia: parole e metafore della salute. Il caso BPCO
di Paola Perna
BPCO: Broncopneumopatia cronica ostruttiva, malattia polmonare cronica che – secondo l’OMS – sarà la terza causa di morte entro il 2030.
La comunicazione della BPCO è un esempio lampante di vuoto nel linguaggio. A partire dall’acronimo e dalla definizione complessa, si rileva la necessità di usare parole e nomi semplici, definizioni che avvicinino la persona alla malattia. E, per poter parlare di “alleanza terapeutica”, bisognerebbe passare dal monologo al dialogo.
“Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite” dice Tullio de Mauro, uno dei più importanti linguisti italiani.
Il suo maggiore contributo allo studio della lingua italiana è stato renderci consapevoli di quanto le parole debbano essere messe al servizio della comunicazione, della comprensione. Il linguaggio deve essere utile e funzionale, particolarmente nei settori più delicati come la salute, la comunicazione pubblica e dei servizi essenziali.
Nella salute, il concetto di funzionalità è ancora più evidente, e non è esagerato dire che in alcuni casi il linguaggio possa essere considerato un fattore essenziale di cura, oltre che di supporto alla relazione medico-paziente.
Prendiamo il caso della BPCO, acronimo che sta per Broncopneumopatia cronica ostruttiva, una malattia polmonare cronica che – secondo l’OMS – sarà la terza causa di morte entro il 2030. Colpisce in modo irreversibile circa 80 milioni di persone al mondo in modo moderato e grave, e mortale per oltre 2 milioni di persone l’anno.
Il linguaggio cura
È un’affermazione forte, motivata in primo luogo dalla complessità della malattia, e sostenuta dalle evidenze emerse dal progetto di medicina narrativa della Fondazione Istud per Chiesi “Progetto FARO: Far luce attraverso i racconti di BPCO”. Nel caso specifico della BPCO, il paziente potrebbe non percepire – oltre alla gravità della malattia, definita proprio nella ricerca come “sordida” – la necessità dell’aderenza alla terapia o le conseguenze dell’errato utilizzo del device. Cosa invece percepita dai medici. Lo stesso vale per lo stile di vita: seguire le indicazioni dei professionisti sanitari può evitare il peggioramento della patologia.
Un acronimo e una definizione complessa: già questo ci fa intendere come le parole che servono a definire la malattia non ne fanno percepire la gravità – come invece accade per “infarto” o “tumore”, per esempio. Da un lato abbiamo quindi pazienti inconsapevoli della gravità della loro malattia, e dall’altro abbiamo, secondo la ricerca, l’89% dei professionisti sanitari consapevoli dell’inefficacia del termine BPCO.
Semplicità
La distorsione è evidente nei dati – 89% dei pazienti dichiara di assumere fedelmente la terapia mentre medici e letteratura rilevano scarsa aderenza (uno su due non assume farmaci in maniera conforme alla prescrizione) – e anche nella percezione: il paziente sottostima i sintomi nel colloquio col medico ma usa metafore potenti per descrivere come si sente – come “soffocare nella nebbia” per esempio, o parole come “gabbia, stringe, sofferenza, difficile, chiusa”, quasi in una sorta di consapevolezza inconscia della gravità effettiva della malattia.
Il linguaggio è lo strumento attraverso il quale riequilibrare la discrepanza tra dati e percezioni. Intendiamoci: il linguaggio tecnico e di settore non è “colpevole” della mancanza di comprensione. È al servizio della comunità scientifica, e ha caratteristiche di precisione e di esaustività utili alla ricerca e alla comunicazione tra tecnici. Quello che invece va eliminato, particolarmente nel caso della BPCO, è il “tecnicismo collaterale”, ovvero la terminologia tecnica settoriale che non è legata a esigenze comunicative settoriali, ma che comunque si differenzia dal linguaggio comune.
È il “medichese”, un metalinguaggio che “traduce” in termini – inutilmente – complessi ciò che invece si potrebbe dire in modo semplice senza perdere in precisione e chiarezza. Un linguaggio che magari un paziente istruito può comprendere – e forse non in una condizione di stress emotivo – ma che certamente non facilita la relazione col medico, e che allontana dall’obiettivo primario di un colloquio medico-paziente o medico-famiglia: comunicare la malattia e trovare la migliore soluzione di cura e di qualità della vita.
Alleanza terapeutica: imparare a dialogare
La BPCO è una patologia complessa, poco comunicata perché necessita di “strumenti” per comunicare, ovvero di parole e definizioni semplici che possano essere adottate dai professionisti sanitari e anche dai media per costruire fiducia e famigliarità con il tema, sia da parte dei pazienti sia da parte delle famiglie e dei caregiver.
Sembra che ciascuno “parli da solo”: nell’interazione medico-paziente, il medico usa il linguaggio che ha a disposizione e il paziente comprende quello che può, a seconda degli strumenti culturali e linguistici che possiede. Le aziende produttrici di farmaci sono in mezzo, parlano ai medici e ai pazienti allo stesso tempo, rischiando di soddisfare solo parzialmente le esigenze degli uni e degli altri. I media, specialistici e generalisti, vivono la stessa ambiguità.
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Fonti:
Il linguaggio della salute, a cura di Alessandro Lucchini, Centopagine 2012
Progetto Faro: Far luce Attraverso i Racconti di BPCO, a cura di Fondazione Istud per Chiesi, 2017, https://www.istud.it/sanita/ricerca/faro-far-luce-racconti-bpco/
Strategia Globale per la Diagnosi, il Trattamento e la Prevenzione della BPCO, Report 2018 Gold Pocket Guide, a cura di Global Initiative for Chronic Obstructive Lung Disease
“I futuri medici rifiutino il medichese”, articolo di Alberto Scanni, Corriere della Sera, 9 settembre 2018
- On 11 Dicembre 2018