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Emergency: i medici davvero in prima linea

Intervista a Gino Strada

di Alessandro Lucchini

Leggi la ricerca la comunicazione in sanità

EmergencyCome fate in Emergency a motivare medici e infermieri? Quanto incide, nella motivazione, sviluppare una cultura di comunicazione, accanto a quella scientifica? Esiste in Emergency un codice comunicativo insegnato o suggerito agli operatori? e quali sono i punti fondamentali? Quale uso fate della comunicazione scritta? quali destinatari, quali obiettivi, quali strumenti, quali linee guida… Nelle situazioni di emergenza in cui operate, senza poter condividere la stessa lingua dei pazienti, quali canali usate per ridurre o per gestire le incomprensioni? In che cosa è diverso dire a un padre iracheno o afghano o sudanese che a suo figlio bisogna amputare un arto, o comunicare un’altra brutta notizia, rispetto a farlo in una situazione italiana, o comunque più normale? Su quale fronte ritiene sia oggi la vera emergenza nella sanità italiana? e nel modo di comunicare la sanità? Perché voi riuscite a organizzare ospedali efficientissimi in poco tempo e qui in Italia la maggior parte degli ospedali funziona male? Lei si ritiene uno dei cervelli fuggiti dall`Italia, visto che investe il suo sapere all`estero? E come possiamo fermare la fuga di cervelli? Dalla Carta dei diritti del malato al consenso informato: è una tutela reale quella che la nostra sanità riserva ai pazienti? E voi che salvate vite senza chiedere documenti né assicurazioni?
Mi sono scritto un’infinità di domande, prima di realizzare questa intervista a Gino Strada. Altre ho chiesto ai miei colleghi di suggerirmene. Altre mi si sono aggrovigliate in testa nella mezz’ora precedente. Non è la mia prima intervista, ma il tremolio nella pancia è quello delle prime volte.
Questo il risultato.

Qual è il modo di comunicare di Emergency?
La comunicazione del lavoro di Emergency consiste semplicemente nel far sapere quello che facciamo, niente di più niente di meno, non servono espedienti. Quello che facciamo è fare medicina per chi non ha accesso a cure mediche. È un’idea molto antica, sempre esistita in ogni cultura e in ogni epoca, una pratica scientifica dettata dall’interesse verso qualcuno che soffre. Solo in tempi molto recenti, da alcuni decenni, la medicina è stata trasformata in quello che è oggi doveroso chiamare “industria della salute”. Questo non ci appartiene: noi non crediamo che gli atti medici possano essere oggetto di mercato.

Che cosa chiedete ai vostri operatori per quanto riguarda il rapporto con i pazienti? C’è spazio anche per la comunicazione scritta?
Noi interveniamo in contesti difficili e pericolosi. Ai nostri medici e ai nostri infermieri chiediamo di curare al meglio le persone, senza nessuna discriminazione. Non classifichiamo i pazienti utilizzando le terminologie della politica: non ci interessa chi è il paziente, può anche essere un criminale o un terrorista, noi pensiamo che quando un essere umano sta soffrendo gli vanno garantite tutte le cure che la scienza medica è in grado di offrire. La prima cosa è l’assoluta neutralità e indipendenza di Emergency: siamo sempre contro tutte le guerre, di destra, di centrosinistra e bipartisan. Le opinioni politiche dei nostri operatori restano al di fuori dell’attività, che deve essere basata solo sulla solidarietà umana e sulla competenza scientifica. Tendiamo a sviluppare dei comportamenti umani, nel senso più profondo del termine: è più umano cercare di salvare la vita di una persona che sta morendo, piuttosto che fare il contrario. Vorrei che solidarietà tornasse a essere una caratteristica della specie umana, invece penso che si stia perdendo sempre di più. L’importante è praticare queste cose, se poi sono scritte va benissimo, ma non è una condizione: spesso a quelli che scrivono troppo sui principi poi non resta abbastanza tempo per praticarli.

È un problema per voi non condividere la lingua e la cultura dei pazienti che curate?
Per alcuni versi è una difficoltà. Mi sono sentito chiedere parecchie volte, nel corso delle conferenze cui partecipo, se utilizziamo un sostegno psicologico ai feriti, ai mutilati, ai malati in genere, o ai bambini feriti di guerra, che rappresentano il trenta per cento dei nostri pazienti. Ovviamente questo ci è precluso dalle barriere linguistiche. Abbiamo aggirato questo ostacolo con un’attenzione fatta di gesti, di manifestazioni di interesse. Noi giochiamo con i bambini anche se non capiscono le nostre parole. Manifestare interesse ai malati è una pratica corrente nei nostri ospedali che paradossalmente, nonostante le estreme sofferenze, sono tutto sommato luoghi gioiosi, perché si respira un clima di solidarietà, di partecipazione, di interesse. Questo rapporto con i pazienti ha avuto dei riscontri straordinari. Quando in Afghanistan ci hanno costretto a uscire dal paese, c’è stata una mobilitazione enorme. La popolazione ha chiesto alle istituzioni di riaprire gli ospedali di Emergency, che per loro rappresentavano dei punti di riferimento, perché erano ospedali della gente. Anche se il nostro governo ha fatto orecchie da mercante, di fronte al consenso della popolazione siamo tornati senza chiedere permessi a nessuno. Questo significa chiaramente che il nostro messaggio è passato, anche se non siamo mai riusciti, per ovvie ragioni, a parlarne con i nostri interlocutori, a trasmetterlo verbalmente, tanto meno per scritto.

“Interesse per il malato”: forse nella medicina si è un po’ perso il malato, ed è rimasto solo l’interesse?
Nella medicina con la M maiuscola non c’è spazio per il profitto. Il profitto innesca un meccanismo perverso. I medici e gli infermieri devono guadagnare il giusto, per avere una vita decorosa, ma non c’è spazio per il profitto. Gli infermieri italiani sono i più sottopagati in Europa. Anche senza troppe simpatie, posso convivere con il fatto che chi fa l’hamburger migliore venda di più e guadagni di più, ma non posso applicare questo metodo alla medicina. Purtroppo è ciò cui stiamo assistendo: un delirio. Ospedali trasformati in aziende ospedaliere, senza neanche chiedere il parere dei cittadini. La politica ha imposto un metodo che ha portato strutture pubbliche ad agire con una logica privata. Ora si lavora a prestazioni: più prestazioni si erogano, più l’istituzione riceve rimborsi. In base a questa logica, l’interesse del medico è che la gente stia male, così da fare più prestazioni. È un conflitto di interessi, che ha prodotto anche l’effetto di medicalizzare qualsiasi problema.

Che significa medicalizzare qualsiasi problema? 
Qualsiasi problema tende a esser considerato come una potenziale malattia, da trattare con farmaci, se non addirittura con presidi chirurgici. Guardiamo gli interventi che si fanno al cuore, per esempio, in Italia, o anche negli Stati Uniti. Quindici o vent’anni fa nessun medico avrebbe mai pensato di toccare le coronarie di pazienti cui oggi viene consigliato, spesso con carattere d’urgenza, di mettere uno stent o di fare un bypass. Oggi invece bisogna fare prestazioni. Con il programma di cardiochirurgia che abbiamo a Khartoum, entriamo in contatto con molti cardiochirurghi italiani: tutti sono concordi nel dire che almeno il 20% dei pazienti che si operano oggi nei reparti di cardiochirurgia italiana sono pazienti sani. Non nel senso che non hanno alterazioni (un’alterazione ce l’abbiamo quasi tutti già a un mese dalla nascita): nel senso che nessuno li avrebbe mai considerati malati qualche anno fa, quando non era codificata la logica del dover erogare un certo numero di prestazioni. Questa logica è devastante dal punto di vista scientifico. 
Stiamo su un piano ancora più generale: la ricerca. Quattro anni fa, sul New England Journal of Medicine, la più importante rivista di medicina, è uscito un editoriale congiunto firmato dai tredici direttori delle più importanti riviste di medicina del mondo. Nell’articolo dicevano che la ricerca era finita, perché tutti i lavori scientifici che le loro riviste ricevevano erano sponsorizzati dall’industria, con lo scopo di preparare il terreno per mettere in vendita un prodotto. I tredici direttori chiudevano dicendo che avrebbero rivisto i criteri di pubblicazione dei lavori scientifici, per assicurarne l’interesse scientifico libero dagli interessi delle industrie. Tutti i quotidiani del mondo avrebbero dovuto riprendere questa dichiarazione: invece silenzio, neanche un rigo. 
Ancora: negli ospedali oggi si vedono pubblicità di prodotti farmaceutici. Quando ero ancora un giovane medico, i rappresentanti delle case farmaceutiche dovevano aspettare nell’atrio; ora che sono informatori medico-scientifici informano direttamente l’utente. C’è chi ti convince che sei malato (spesso lo sei, ma non sempre), e poi ti propone già la soluzione farmacologica, già dentro la struttura stessa. Non è la nostra idea di ospedale. Gli ospedali di Emergency sono luoghi ospitali, dove la gente che ne ha bisogno viene curata, gratuitamente. La medicina seria deve avere il segno meno davanti. Bisogna spendere ciò che è necessario, non di più, spenderlo bene, ma spendere tutto ciò che serve, senza preoccuparsi di rientrare nei bilanci. Se i soldi non bastano, sono altri i settori di cui si può fare a meno, non la salute. La medicina è di tutti, prima o poi tutti ne abbiamo bisogno, perciò dev’essere di alto livello, gratuita e pubblica.

Quando un medico entra in contatto con voi, qual è il messaggio che si porta a casa? in cosa si arricchisce un operatore sanitario dopo un esperienza con voi?
La maggior parte dei medici la vive come un’esperienza straordinaria, spesso si affezionano, quelli che possono tornano per un’altra missione, a volte restano con noi a tempo pieno. È un’esperienza che apre gli occhi. Per esempio, toccare con mano che al di là del Mediterraneo è possibile una medicina d’eccellenza anche senza la risonanza magnetica o la Tac, al massimo con qualche antidolorifico, qualche antibiotico, qualche aspirina, se va di lusso due vaccini, è un’esperienza che ribalta i luoghi comuni cui siamo abituati, e che segna per tutta la vita. Certo, alcuni nostri collaboratori tornano a casa anche con un senso di inadeguatezza: balzano ai loro occhi le contraddizioni della nostra medicina, i meccanismi dell’industria della salute, e ci stanno stretti.

Se lei fosse Ministro della salute, qual è la prima emergenza sulla quale interverrebbe?
Facile! Oggi le strutture private possono convenzionarsi con le strutture sanitarie nazionali, erogano servizi e si fanno rimborsare. I rimborsi però costano più della prestazione in sé, perché si aggiunge il profitto dei proprietari delle strutture. Allora, se io fossi Ministro della salute renderei subito noto che le convenzioni non verranno più rinnovate a scadenza. E quindi che le strutture private si attrezzino, per vivere del loro. Se la sanità pubblica potesse usufruire di tutte le risorse disponibili, che non sono molte, senza sacrificare una fetta enorme di danaro al profitto di tutti gli investitori nel campo della salute, credo che ci sarebbero tutte le risorse economiche per rendere decenti gli stipendi del personale infermieristico, per ammodernare strutture e apparecchiature, per razionalizzare i servizi, per investire in ricerca. Le risorse, invece, sono sempre meno perché vengono drenate, e di questo noi sappiamo poco. 
La percentuale del Pil destinata alle spese sanitarie in Italia è intorno al 10% (negli Usa è il 15%). Attenzione, però: sotto la voce spese sanitarie non c’è solo quello che viene speso per la salute dei cittadini, ma anche il guadagno delle industrie del settore. Si è capito che la salute è l’unico mercato sicuro al 100 per cento, perché tutti gli esseri umani sono potenziali clienti, e quindi lì convergono miliardi e miliardi e miliardi. Se si recuperassero, anche in parte, queste somme enormi, si potrebbe utilizzarle per la sanità pubblica, ma davvero pubblica, gratuita per tutti e a nome di tutti, in modo trasparente ed efficiente.

Può fare un esempio? Qual è la differenza tra le spese sanitarie in un ospedale di Emergency e quelle di un ospedale convenzionato italiano?
Un esempio. Nel centro di cardiochirurgia di Khartoum sostituiamo valvole mitraliche. I medici italiani che hanno visto il nostro centro lo riconoscono come una struttura d’eccellenza, tutto quello che serve davvero c’è. Sostituire una valvola mitralica ci costa circa 4.000 dollari, cioè circa 2.500 euro. Per la stessa sostituzione, effettuata in una struttura convenzionata italiana, lo Stato risarcisce 25.000 euro. Trovatemi voi un conto bancario che renda il 1000 per cento. Introdurre le convenzioni del sistema sanitario nazionale con le strutture private è stato uno degli atti più infami della storia del nostro paese. Un altro atto infame è stato introdurre le compartecipazioni nel salario dei medici, che oggi sono pagati con una quota fissa più una quota che dipende dal numero di persone che riescono a visitare. Poi ci lamentiamo che il medico è sempre di fretta.

Che cosa voleva dire “Emergency” quando è nata, e che cosa vuol dire adesso?
Emergency è nata per fare qualcosa di fronte all’enorme problema dei feriti di guerra e dei feriti dalle mine antiuomo, in paesi che non avevano alcuna chance di assistenza sanitaria. Oggi è un’associazione che, da questa pratica, ha elaborato un proprio modo di intendere i diritti umani come elementi fondanti di una società, in particolare il diritto a essere curati, il più importante di tutti. Non ha senso parlare di nessun altro diritto se si è morti: il primo diritto è quelli di restare vivi, e restarci il meglio possibile. Questo modo di pensare ci ha aiutati ad aprire in Africa il primo centro cardiochirurgico d’eccellenza gratuito. Un fatto che resterà nella storia della medicina di quel paese e di cui tutti si ricorderanno, come noi ricordiamo la prima volta che è passato il tram. Abbiamo dato il nostro piccolo contributo a un puzzle più grande che speriamo si realizzi.

Con sua figlia Cecilia lei ha scritto la storia del “mago Linguaggio” , che ha regalato agli uomini le parole con il consiglio di farne buon uso. Quale parola vorrebbe restituirgli?
La parola che il mago linguaggio dovrebbe tenersi per sempre è “guerra”, nell’accezione più ampia. I mezzi di informazione ci propinano ogni giorno l’uso e la scelta della violenza come risposte a qualunque problema: ma non sono risposte, sono appunto violenze. Il Novecento è stato il secolo più violento nella storia dell’umanità, con violenze di massa inaudite, e il nuovo secolo non sembra promettere gran che di buono. Questo mi lascia enormi punti di domanda sulla possibilità di sperare in qualcosa.

Ciononostante…
Ciononostante bisogna andare avanti a fare. Certe cose vanno fatte, senza chiedersi se val la pena o non val la pena. L’unico modo di essere umani è comportarsi da umani. Anche nei momenti in cui verrebbe voglia di chiudere tutto e andare a pescare, bisogna andare avanti.

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