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Conversazione con Amedeo Balbi, astrofisico, ricercatore all’università di Roma Tor Vergata

di Annamaria Anelli

Un’intervista a un astrofisico di talento che sulla semplificazione la pensa come noi. Con l’augurio che ce ne siano altri così. E non solo scienziati.

Semplificare anche a rischio di sbagliare

Anna: All’inizio volevo intervistarti, poi ho pensato che fosse più interessante confrontarmi con te. Così lo faccio, qui, davanti a tutti. Quando sul “Post” ho letto “Apologia del divulgatore”, ho pensato che i linguisti e gli astrofisici potrebbero essere parenti.

Questo l’aneddoto da cui parti: Molti anni fa, quando facevo la tesi di laurea, un mio conoscente mi chiese su che cosa stessi lavorando. Sul fondo a microonde, risposi. Ah, interessante, ne parlavamo proprio ieri sera in famiglia, disse lui. E subito dopo aggiunse: stavamo decidendo se comprarne uno.

Ed ecco il pezzo forte: […] in quel momento mi sentii tagliato fuori dalla possibilità di avere conversazioni comprensibili con le altre persone a proposito del mio lavoro.

I miei temi sono anni luce più vicini al senso comune dei tuoi, ma anche io ho spesso qualche difficoltà a spiegare il mio lavoro: per molti anni sono stata progettista di corsi online e dal 2008 sono docente di semplificazione della scrittura. Un giorno lontano, dopo l’ennesima volta in cui ho cercato di spiegare alla mia cara mamma in che cosa consistesse il mio lavoro, lei, candide, mi ha risposto: non ho capito, ma tanto alla zia ho detto che fai l’insegnante.

Cancellare, generalizzare e deformare, ci dice la neuro-linguistica. È il modo che abbiamo per semplificarci la vita, per non dover ricominciare ogni giorno come se fosse il primo e soprattutto per non soccombere sotto la complessità degli stimoli cui siamo sottoposti.

Ma allora, Amedeo, perché in così tanti, ancora, pensano che se parli in maniera semplice – e quindi chiara – ti abbassi di livello e perdi di autorevolezza?

Amedeo: C’è un amore tutto italiano per il parlare paludato, un compiacimento per i giri di parole, per dire in mille parole quello che può essere detto altrettanto bene – e anzi meglio – in cento, o dieci. Il tutto nasce, credo, da una forma di difesa delle proprie competenze, che devono essere custodite, non diventare alla portata di tutti. Ma c’è anche un aspetto più sottile. Chi è molto esperto in un campo – e penso soprattutto alla scienza – rischia di finire per credere di aver colto tutta la complessità dei fenomeni, e che questa complessità non sia riducibile, che ogni semplificazione faccia perdere di vista qualcosa di importante. Al contrario, il mondo è talmente complesso che nessuna descrizione è mai completamente accurata. Ogni volta che raccontiamo qualcosa facciamo una scelta, scegliamo il livello di profondità a cui vogliamo arrivare, e nessun livello è in linea di principio migliore degli altri – ovviamente a patto che l’operazione di passaggio tra un livello e l’altro sia fatta con rigore e senza errori di trascrizione. Per fare un esempio fisico, posso dire che un gas ha una certa temperatura senza preoccuparmi che la temperatura è il risultato dell’agitazione delle molecole del gas, o che le molecole a loro volta sono fatte di atomi o che gli atomi sono fatti di elettroni, protoni e neutroni, e così via. Non posso, ogni volta, raccontare tutto. Nessun discorso può mai cogliere tutta la complessità: potremmo continuare a scendere sempre più in profondità, all’infinito. Per capire dove fermarci bisogna capire il contesto, il pubblico a cui ci rivolgiamo, adattare il linguaggio di conseguenza, e così via. È una forma di ricerca anche questa: costa fatica, e non tutti hanno voglia o interesse a farla. 

Anna: Tu dici che una delle tue gioie più grandi è vedere il tuo interlocutore illuminarsi perché, grazie alle tue parole, capisce finalmente qualcosa che gli era sempre sembrato astruso. Io sarò prevenuta, ma è così che ho sempre pensato che si misuri il “valore” di chi possiede conoscenze, più o meno importanti, più o meno difficili. E non solo degli scienziati. Nelle mie aule la prima obiezione standard è: se scrivo in maniera più semplice, chi mi legge penserà che sono al suo livello. Io devo mettere una distanza, far capire che sono al di sopra. Allora, spesso, chiedo: non vi ricordate, all’università, chi erano i professori che riempivano l’aula magna e che più amavamo? Quelli che sapevano spiegarci nella maniera più cristallina possibile anche i concetti più astrusi. Quelli che ci facevano uscire da lezione con il sorriso sulla bocca: perché capivamo, perché ci accendevano mille lampadine e, cosa strafiga, ci facevano venir voglia di andare ad approfondire un po’. E allora?

Insomma, vai a capire perché nella testa di molti tuoi colleghi, di molti avvocati, di molti politici, di molti medici, di molti insegnanti e poi basta che potrei continuare per un bel po’, insomma vai a capire perché il verbo divulgare è sinonimo di sminuire.

Amedeo: Nel mio post parlavo di alcuni miei eroi, ma ce ne sarebbero molti altri. Quello che dici mi fa venire in mente – oltre a qualche raro professore che ho avuto la fortuna di incontrare durante gli anni di scuola – anche un altro nome, quello di Beniamino Placido. Quando ero molto giovane, i suoi articoli su Repubblica sono stati determinanti nel farmi capire che si poteva mischiare la cultura popolare con quella accademica, condensare in poche righe, in modo brillante e con dosi massicce di ironia, più spunti di quanti se ne potessero trovare in cento articoloni tromboneggianti. Era il professore che tutti avremmo voluto avere, quello che ti forma senza che tu te ne accorga, e soprattutto senza sbadigli. La verità, purtroppo, è che non è semplice riuscire a scrivere, a raccontare, a insegnare in quel modo, mentre è molto semplice nascondersi dietro un muro di finta complessità.

Anna: Tullio De Mauro, un po’ il papà di tutti noi che facciamo questo mestiere, alla fine degli anni 70’ lancia il progetto dei “Libri di base”. Una serie di tascabili, editi da Editori Riuniti, con un obiettivo stupendo: parlare di temi scientifici, umanistici, medici, economici in maniera da renderli accessibili a tutti. La ricetta? Usare le parole del “Vocabolario di base” che, nel frattempo, lui stava assemblando e rispettare le regole che aumentano esponenzialmente la leggibilità di un testo. Frasi brevi, più verbi e meno sostantivi, forma attiva al posto di quella passiva, poche parole tecniche e, se di difficile comprensione, spiegate o illustrate con disegni o grafici. Questo progetto sforna libri che hanno anche un buon successo di vendite, ma termina alla fine degli anni ’80.

Fare divulgazione di questo genere potrebbe portare più persone a interessarsi di scienza, di filosofia, di economia, secondo te, Amedeo? Potrebbe tirar dentro anche una parte di quei ragazzi che dalla scuola ricevono stimoli zero e che quella scuola ripagano con la moneta dell’indifferenza e della impermeabilità?

Amedeo: Al di là delle considerazioni commerciali, su cui non ho alcuna competenza, credo che iniziative di questo tipo sarebbero molto importanti. Teniamo presente, però, il grande ruolo che sta avendo il web in questa direzione. C’è molta superficialità nel giudicare quello che sta avvenendo con la divulgazione su internet: sicuramente ci sono delle differenze negli esiti, non tutto quello che si fa su internet è valido (d’altra parte, qualunque sia il mezzo di comunicazione, la maggioranza non eccelle). Però ci sono anche cose notevoli. Per sua natura, il web ti costringe a semplificare, non puoi tirarla troppo per le lunghe. E poi hai a disposizione la potenza del link, che ti permette di creare in modo naturale diversi livelli di profondità. E ci sono già esperimenti come le pagine di Wikipedia in “simple English” che vanno proprio nella direzione del “Vocabolario di base” di De Mauro. 

Anna: Entro un po’ più nelle tue acque e quindi “parlo” di meno io: di che cosa avrebbe bisogno la scienza per essere amata un po’ di più qui da noi?

Amedeo: Eh, magari lo sapessi! Intanto però cominciamo a parlarne di più e meglio. Bisognerebbe far capire che la scienza non è solo un insieme di tecniche o di conoscenze. È una parte importante della cultura, e dovrebbe far parte del bagaglio di tutte le persone. Tutti dovrebbero sapere cos’è una stella o chi è stato Keplero, così come tutti dovrebbero sapere cos’è una sinfonia o chi è stato Dante. Mi sembrerebbe il minimo, in un’epoca in cui si dà con facilità il “bollino” culturale un po’ a tutto, dall’enogastronomia allo sport.

Anna: Finisco proprio con le tue parole:

Rilassatevi, colleghi scienziati. Parlate con le persone, raccontate quello che fate. Vi faranno le domande più difficili che abbiate mai sentito, e non potrete rispondere rimandando al vostro articolo del ’98 su Nature, o nascondendovi dietro una cortina di tecnicismi. Uscite dai vostri uffici, rinunciate a qualche pretesa di essere i depositari di un sapere occulto, da non sporcare, da non corrompere. Fate qualche piccola concessione alla comprensibilità, anche a rischio di sbagliare.

  • On 25 Ottobre 2012
Tags: filosofia
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