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Diversity language

di Chiara Lucchini

Intervista a Cecilia Fort, che lavora nel team della Diversity & Inclusion di una grande azienda, in particolare nell’ambito della Disability.
Diversity language: l’esigenza di lavorare sul linguaggio perché il linguaggio avvicina le persone, evitando irrigidimenti o atteggiamenti pietistici. Questo vale per tutte le categorie della Diversity: gender, age, culture, disability.

Partendo dal racconto di Cecilia Fort abbiamo scritto l’articolo Le parole sono finestre oppure muri. Il linguaggio della disabilità

– Quali sono le domande più frequenti che ti fanno sulla tua situazione?

Spesso mi chiedono “ma davvero vai in ufficio col cane?”. Le domande più strane sono su come faccio a vivere, ad avere una vita lavorativa e familiare, nonostante io non ci veda. Come faccio a vestirmi, ad abbinare i colori, come faccio a capire se la collana che porto è un accessorio in tinta con i vestiti che ho messo. O anche domande più banali – ma che in realtà non lo sono perché la curiosità è sempre sana – su come comincia la mia giornata a casa. Quali sono le cose che faccio nella mia vita quotidiana, dentro e fuori dal lavoro: come faccio a fare le cose come tutti gli altri se io non ci vedo.

– In quale linea di pensiero della “diversity” – gender, age, culture, disability – è più urgente sviluppare consapevolezza, secondo te?

Era più urgente partire dall’ambito gender, perché era una situazione di tale grave discrepanza, a livello di mansioni, stipendi e organici, per cui era urgente partire a sviluppare quell’area.
Però tutte le aree hanno una loro dignità.
Anche l’age ha una grande importanza. Perché se da un lato si vuole portare più giovani nelle aziende, svecchiarle, portare nuove energie, dall’altro bisogna potenziare le energie delle persone che staranno al lavoro più a lungo a causa dell’aumento dell’età pensionabile.
L’ambito culturale ha necessità di sviluppare una consapevolezza della varietà culturale che caratterizza la nostra società globale, della quale un’azienda – se vuole rispondere o anticipare i bisogni – deve farsene specchio, altrimenti è come pensare con la testa di altri. Questo va sviluppato altrimenti resta uno sbilanciamento troppo grande tra i nostri dipendenti e la popolazione, quindi anche i nostri clienti.
L’ambito della disability è urgente nella misura in cui si riesce a far passare il messaggio che sono le persone a portare ricchezza e aumento di valore nell’azienda, siano esse anche connotate da difficoltà personali. Questo proprio perché la disabilità adesso, anche in base alle tecnologie sviluppate, può essere aggirata, se l’ambiente di lavoro lo consente. La consapevolezza sta nel vedere tutte le persone come una possibilità di valore.

– Quali parole ti danno più fastidio? Quali ti piacciono di più?

Mi danno fastidio le parole che sono la manifestazione di un pensiero ostile. Quindi indipendentemente dalla parola in sé, è anche l’intenzione che gioca una grande parte. È importante lavorare nel perfezionare il vocabolario per offrire degli strumenti di avvicinamento e inclusivi tra le persone. Usare la parola più corretta avvicina, non irrigidisce. È altrettanto importante ciò che si vuole trasmettere con quelle parole e il comportamento che ne sta dietro, il pensiero che ne sta dietro.

Le parole dette con ipocrisia, con finto pietismo, con malcelato disprezzo. Parole evidentemente appartenenti a retaggi maschilisti, o approcci di tipo falsamente buonisti o pietistici nell’ambito dell’handicap. E mi dà molto fastidio quando ci si rivolge a una persona straniera, o che ha dei connotati stranieri perché potrebbe essere nostro concittadino, rivolgendosi con il “tu”.

Le parole che apprezzo di più sono quelle che vengono formulate in seguito a un ascolto attivo. Abbattere i muri che ciascuno porta con sé, tramite l’ascolto del vocabolario e del linguaggio dell’altro, per poterlo riproporre in una conversazione neutra. Tra queste parole, quello che apprezzo di più è parlarsi con nome e cognome, senza che la diversità della persona venga sottolineata.

– Quali i pericoli delle categorizzazioni nominali? Es. “i disabili”, “i sordomuti”?

I pericoli sono che, quando si crea una categoria di persone sotto un nome, si perde la loro identità e le si identifica esclusivamente per una caratteristica, quella che magari spicca di più agli occhi dell’interlocutore.
Quindi il rischio di parlare di “sordomuti” è di perdere il focus sulla persona e su quello che può esprimere, concentrandosi su una sua sola caratteristica assumendola a tutto. E questo fa perdere di vista la persona nel suo insieme. Il rischio è di relazionarsi con una persona che ha un nome e cognome, una vita, una simpatia o un’antipatia, solo per una delle sue condizioni. Questo per la disability è molto molto forte.
Ma lo vediamo anche nell’ambito interculturale, per esempio quando si parla del “marocchino” o dell’“immigrato”: ti sta sfuggendo che dietro quella persona c’è tutta una storia, e che quella persona può essere vista in una molteplicità di aspetti positivi e negativi.

Quindi il rischio di queste categorizzazioni è di semplificare troppo: ridurre a una caratteristica e perdere di vista quello che è la persona.

 

 

– Quali sono le paure, o gli scrupoli, utili e quelle inutili? (es. sordo / non udente, cieco / non vedente…)

Se noi vogliamo avvicinarci a una persona, dobbiamo partire dal nostro punto di partenza, che è fatto di pensieri, di abitudini e di un linguaggio che ci connota. Nel relazionarci con un’altra persona ci si può trovare in difficoltà, può esserci l’imbarazzo del pensare se è meglio dire una parola piuttosto che un’altra. Questa prima fase di imbarazzo, di rigidità, è una fase naturale: è come un allenamento. È una fase bellissima, è quella che dà il via al cambiamento, perché ci si comincia a chiedere quale sia l’approccio più corretto.
È logico che avere delle precauzioni linguistiche, avere a propria disposizione un bagaglio linguistico ben articolato e funzionale aiuta nel tempo a far sì che queste parole diventino parte delle tue abitudini e dei tuoi pensieri.
Quindi se in un primo momento può sembrar difficile togliersi dalla testa la parola “sordomuti”, che è una parola che è stata eliminata anche dalla legge, l’importante è avvicinarsi alla persona.
Tuttavia, la consapevolezza che ci sono parole più o meno corrette è la chiave che ti consente di avere un approccio relazionale molto più disinvolto.
Quello che non va tanto valorizzato sono le formule politically correct, come “diversamente abile” o “non deambulante”.
Esistono dei nomi per le persone che sono innocui se vengono utilizzati per connotare quella caratteristica.

– Uso dell’umorismo: quanto ti aiuta a rapportarti con le persone e anche con te stessa?

L’umorismo è la chiave per cambiare l’approccio alla realtà. Se la realtà non può cambiare, ed è un dato di fatto, il tuo umorismo ti può aiutare a vedere le cose meno difficili, meno faticose.
Se è un umorismo sincero, un umorismo che ha a che fare con il nostro stato di consapevolezza, se c’è stato un lavoro dietro, aiuta ognuno di noi a prendere meno sul serio le grandi difficoltà della vita davanti alle quali ciascuno di noi si trova.

Perché quella che per me può essere una difficoltà minore può essere una difficoltà maggiore per un amico e viceversa.
Per esempio, per me prendere l’ascensore non è un problema (sempre che non ci sia la tastiera touch screen!), invece per una persona che soffre di claustrofobia quello è un grande scoglio.
Quindi l’umorismo ci aiuta a ridimensionare le difficoltà, e – se lo usiamo con gli altri – aiuta a sdrammatizzare.
Dev’essere però un umorismo sincero, non dev’essere caricaturale. Dev’essere spontaneo, altrimenti si rischia di diventare leziosi, un po’ pesanti, e ridursi a macchiette.

– Qual è il tuo sogno, il tuo I have a dream? Diversity and inclusion: cosa dovrebbe succedere perché ci sia davvero inclusione, tra le tante diversità?

Il mio sogno è che i bambini di adesso, nelle relazioni interpersonali, possano mantenere la loro spontaneità che connota i contatti che i bambini hanno nella loro purezza.

Non ci sono bambini piccolini che si guardano storto perché hanno un colore diverso della pelle, o perché parlano una lingua diversa, o perché hanno una differenza fisica. Ai bambini interessa trovare delle interazioni efficaci al loro gioco, al loro stare assieme.
La mia speranza è che questa abilità, che è insita negli esseri umani fin da piccoli, semplicemente si mantenga e si potenzi.
Questo basterebbe.

– Ci fosse un “decalogo” del Diversity Language, quali dovrebbero essere, a tuo parere, le prime tre regole?

1. Ascoltare
2. Essere curiosi
3. Cercare un contatto

 

 

 

 

Se poi volessimo aggiungerne una quarta, valida non solo per il Diversity Language, sarebbe: “Pensa prima di parlare”.

  • On 6 Dicembre 2018
Tags: Cecilia Fort, Chiara Lucchini, Disability, Diversity language, Palestra della Scrittura
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