
IN PRINCIPIO ERAT SCRIPTUM
Perché parlare ancora oggi di scrittura a mano?
di Bianca Borriello, Titti Soncini e Alessandro Lucchini
Dall’incidere la tavoletta di cera, primordiale istinto all’eternità, al costruire progetti condivisi tra più persone, scrivere a mano coinvolge più funzioni cerebrali e garantisce la più efficace e divertente delle ginnastiche per la mente.
Aspirazione all’eternità
La parola scrivere ha un etimo intenso: “scribere”, che in origine significa segnare lettere e parole con lo stilo sopra le tavolette incerate. L’immagine rende bene la preparazione, la fatica, il gesto, gli attrezzi, l’intenzione, la volontà e l’evidente aspirazione all’eternità. Si scriveva, infatti, incidendo la tavoletta con lo stilo, un oggetto appuntito d’avorio, di metallo o di osso. Si scriveva per lasciare un segno, il proprio segno.
Stile (o stilo?)
Quando siamo in aula per i nostri corsi di comunicazione scritta, spesso parliamo delle “7 S”, sette abilità da sviluppare, e sono tutte parole che iniziano con la S (come scrivere, toh). Raccontiamo della semplicità, il regalo più grande che possiamo fare al lettore, della sintesi, che se non è un dono può essere il risultato di un buon allenamento, della struttura, la parte più ingegneristica, quella che fa “stare su” il testo e lo porta dove vogliamo che vada, della se-duzione, quella capacità magnetica di attirare a noi chi ci legge, della sim-patia, chiave per condividere i sentimenti con chi sta dall’altra parte, e della stra-vaganza, che è un invito a percorre strade non ancora battute.
Dulcis in fundo, ci teniamo la settima S, la più speciale, quella più difficile da definire e al contempo più facile da intuire, quella che rende la voce di chi scrive unica, inconfondibile: lo stile, appunto.
E lo stile – o stilo, erano usate entrambe le parole – come abbiamo detto, era proprio la penna con cui si incidevano le tavolette di cera, per lasciare la propria traccia. Oggi stile ha un’accezione più ampia: è ciò che caratterizza una persona, o un’impresa, o un’istituzione, rispetto a un’altra, e ha conquistato terreno in tutti i campi, dalla moda all’arte, dalla musica alla cucina, dallo sport al modo di vivere. Lo stile spesso ci supera nelle intenzioni, viene interpretato da chi ci legge, da chi ci guarda, da chi ci vive, e dice di noi molto più di quello che intenzionalmente sappiamo o vogliamo dire. Lo stile è il nostro marchio, la nostra cifra distintiva; per dirla con un termine di moda, è la chiave del nostro personal branding.
Oggi, quando mondo reale e virtuale fanno fatica a distinguersi, è fondamentale affinare l’arte di raccontarci, promuoverci e valorizzarci, per renderci unici. Il web è il luogo perfetto, quello che rende tutto possibile, nel bene e nel male. Lasciamo continuamente le nostre tracce in rete, scriviamo, giorno dopo giorno, come niente fosse, pagine, interi pezzi, piccole righe della nostra storia. Incidiamo, con il nostro stile, milioni di tavolette fatte di bit.
Lo facciamo usando la tastiera del computer, del tablet o del telefonino. Lo facciamo senza pensare troppo alle infinite tracce che lasciamo: post, like, commenti, foto, condivisioni… Lo facciamo presi dalla velocità e dalla facilità degli strumenti, dalla foga della risposta, dalla voglia di essere lì e anche là. Lo facciamo in un “adesso” che ci sembra non abbia nulla di eterno. Lo facciamo e, a volte, proprio perché nulla di tangibile può ricordarcelo, dimentichiamo di averlo fatto. Lo facciamo, facciamo, facciamo e facciamo ancora, senza pensare che Google e i suoi fratelli custodiscono meticolosamente anche la più piccola delle nostre tracce e sono pronti a presentarla, ora, tra un anno, tra dieci e forse tra mille, a chiunque vorrà usarla per ricostruire la nostra storia, magari a modo suo, e chissà.
Lo facciamo punto e basta, anche se sappiamo che, una volta fatto invio, quelle parole non ci appartengono più. Lo facciamo, in ogni luogo e in ogni momento, perché non serve un foglio, una penna, una matita temperata, un tempo e qualcosa su cui appoggiarsi.
Lo facciamo perché scrivere è il nostro modo di lasciare un segno nel mondo.
E allora, perché scrivere a mano?
È dunque anacronistico, come si sente spesso fare in giro, promuovere un ritorno alla scrittura a mano? Oggi che tutti possiamo scrivere in rete, che non serve un editore per pubblicare le nostre parole, che con un clic possiamo diffondere il nostro stile, conquistare o perdere il pubblico, oggi che è tutto così incredibilmente facile? Forse no.
Se mentre schiacciamo tasti la nostra mente sapesse tornare a quella tavoletta di cera, e a quell’oggetto appuntito capace di inciderla, alla fatica del gesto, alla ricerca della precisione, della limpidezza, dell’onestà espressiva, della massima perfezione possibile. Se considerassimo la difficoltà di tornare indietro, dopo aver inciso; se nel metter lì in parole i nostri pensieri dovessimo ancora render pieno conto al tempo, amico e nemico delle azioni umane, alla volontà, a quell’attività poietica di creazione e costruzione di un senso, alla ricerca consapevole dell’eternità. Insomma se solo sapessimo tornare lì, almeno un pochino, se sapessimo ancora vedere, toccare e sentire la scrittura, il suo peso, la sua forma, allora il nostro stile saprebbe incidere nel modo giusto, e raccontare la nostra storia.
Pensare “al gusto di matita”, e altre sinestesie
«Mamma, per esempio; mamma, tre piccoli ponti, un cerchio, una gambetta, sei piccoli ponti, un altro cerchio, un’altra gambetta, risultato: mamma. Come riaversi da un simile prodigio?»
Le parole di Daniel Pennac, dal libro Come un romanzo, mettono in moto l’immagine, prodigiosa, davvero, dello scrivere a mano. Per raccontare il rapporto con il gesto dello scrivere è utile tornare all’origine anche dello stupore, allo sguardo incantato dei bambini, al rituale appreso e poi infinitamente ripetuto, al coinvolgimento dei sensi che appartiene a quell’età come a nessun’altra. Fin dall’istante in cui impugni per la prima volta il parallelepipedo sottile a base esagonale che imparerai a chiamare matita, la relazione tra la parola prodotta e l’atto del produrla sono un tutt’uno.
I polpastrelli si soffermano sugli spigoli, e iniziano a far ruotare l’oggetto in cerca dell’esatta angolazione. Mastichi il legno, e piccole scaglie di lacca si muovono tra lingua e denti prima di essere inghiottite. Eccolo lì, subito, il gusto esatto del pensare. La mano intanto è tornata sul foglio e danza la sua coreografia, onde, cerchi, linee più lunghe e più brevi.
È ben più che visivo, l’atto dello scrivere a mano. È gustativo, olfattivo e tattile, e continua a esserlo anche quando il raschiare sordo della graffite sulla ruvida pagina bianca lascia spazio all’inchiostro che rotola fuori dalla pallina in corsa di una BIC. L’odore del bianchetto, la punta scolpita della stilo-grafica (e-ridagli), il blu che esce a fiotti dalla cartuccia che hai deciso di aprire per vedere l’effetto che fa. Sinestesie avvolgenti, travolgenti, coinvolgenti, in tutti e con tutti i sensi.
La mano respira
A quella sensoriale si accompagna un altro genere d’immersione: la negoziazione continua che la scrittura manuale comporta – tra sé, i propri pensieri, la propria sfrontatezza espressiva e le infinite variabili del dicibile – produce ripensamenti e censure che si traducono in frecce, sovrascritte, rigacce vergognose, scarabocchi, asterischi, postille.
La mano respira. Ed è un respiro misurabile in altezza e intensità dei tratti, ora sbilenchi e frenetici, ora morbidi e lunghi, pienamente realizzati nel tempo concesso all’incontro tra il pensiero e la sua disposizione su carta. La mappa visibile del nostro travaglio di autori contiene un messaggio che precede quello racchiuso nelle parole, e se l’occhio del lettore potrà percorrere la nostra pagina incontrando buchi neri, cancellature decise, tratti marcati che finiranno col catturare la sua attenzione, si aprirà nella sua mente una linea diretta con la nostra, un canale più intimo, intenso, confidenziale. “Chissà che cosa c’era qui sotto, chissà se quella frase poi rimossa avrebbe cambiato le cose…”.
«Avete carta e penna?»
Dopo il buongiorno, le presentazioni, i sorrisi di accoglienza, nei corsi in Palestra della scrittura, facciamo subito questa domanda.
Piccolo passo indietro: perché Palestra, e perché della scrittura?
Se è vero che tutti, in condizioni di salute, impariamo a camminare e poi a correre, il giorno in cui decidessimo di partecipare a una maratona dovremmo aggiungere alle competenze di base un allenamento specifico che coinvolge gambe, braccia, sguardo, bocca, respiro e battito del cuore. La resistenza mentale e quella fisica avrebbero bisogno di una nuova routine quotidiana per migliorare i risultati. Allo stesso modo, per tenere un discorso in pubblico, per scrivere un articolo o un post, per dare forma a un racconto o a un romanzo, occorre allenarsi, con regolarità, costanza ed esercizi mirati.
Proprio come per la corsa, mentre il comunicare è di tutti, pur con infinite varianti linguistiche, se qualcuno vuole ottenere un risultato specifico deve svolgere un allenamento specifico. E siccome scripta manent, sono proprio carta e penna gli attrezzi con cui noi ci alleniamo, e alleniamo i nostri allievi. «Ho il portatile, va bene se uso questo?», ci chiedono a volte. «Va bene, certo: se usi carta e penna è meglio. Puoi farlo?»
Apprendiamo la lingua parlata in modo spontaneo, senza istruzioni, perché siamo biologicamente creati per farlo, ma scrivere è un’abilità acquisita nell’arco di quattromila anni. Se abbiamo scelto di dedicarvi tempo e fatica, è perché sapevamo di trarne un vantaggio.
La scrittura a mano comporta un atto creativo per ogni lettera incisa sulla carta. La parola non appare su uno schermo con un gesto verticale, ripetitivo, sempre uguale, è frutto di un insieme coordinato, ogni volta unico, di movimenti che coinvolgono occhio, mano e mente, favorendo un’attività neurologica più ampia. Costa fatica, certo, ma la fatica è alleata di ogni buon allenamento. Rinunciarvi in nome dell’immediatezza, a lungo andare, rischia di rammollire i muscoli del pensiero.
Apprendimenti in Palestra
Neurologi, psicologi, educatori, calligrafi, studiosi dei meccanismi dell’apprendimento, e poi poeti, artisti, teologi delle emozioni, avrebbero potuto stilare queste righe con un taglio più scientifico, più oggettivo, attendibile, più puro. La nostra vocazione è invece alla concretezza, alla manualità, appunto, e questo ci spinge a concludere con un elenco puntato. È, in sintesi, ciò che abbiamo imparato insegnando a scrivere, e scrivendo a mano. I lettori possono collegarsi idealmente, mettendo dei virtuali segni di spunta o dei sorrisi, sui punti che condividono, o anche dei NOOO carichi d’indignazione 🙂
Scrivere a mano
– è democratico: lo fanno tutti, dal professore allo studente, dal caporeparto all’operaio, dal prigioniero al giudice, dal paziente al medico;
– è allenante: la pigrizia mentale spesso riconoscibile nei “nativi digitali”, sorprendente contraltare alla loro velocità/superficialità/multifunzionalità, potrebbe trovare una buona sponda, e un rigeneratore, in un più equilibrato alternarsi di scrittura finta e scrittura vera;
– è disciplinante, perché scrivere è anche leggere, pensare, scegliere, organizzare, pulire, presentare;
– è genuino, tanto che se il cameriere prende la comanda facendo tremare il taccuino, anziché schiacciando brutti bottoni su una scatoletta, voi capite che ci tiene proprio a portarvi le delizie della cucina;
– è creativo, e si rassegnino, tutti i software di mind mapping disponibili in rete: una buona scaletta, o una mappa mentale, o un clustering, come diciamo noi, sono motori d’idee senza confronto;
– è accordante, spinge a negoziare, e lo vediamo sempre negli esercizi in aula, quando scrivere sul foglio del vicino significa essersi meritati uno spazio di relazione, rispetto alle fredde revisioni di word e a quei loro coloracci che fan tanto maestrina;
– è sociale, e infatti la “scrittura a più mani” è una nuova frontiera, nelle aziende, per una formazione che sia anche integrazione, condivisione, costruzione della squadra, disponibilità al confronto;
– è arricchente, e mica solo in termini spirituali: se Steve Jobs non avesse frequentato all’università un corso di calligrafia, e coltivato così il proprio gusto estetico, forse il Mac sarebbe rimasto un’idea;
– è romantico, perché provate davvero a scrivere t’amo sulla sabbia, con la persona che amate lì a un metro, e godetevi l’effetto che fa;
– è bello: ecco, è bello. E basta.
- On 5 Marzo 2019