Il colloquio della settimana: stratagemmi di comunicazione nella mediazione familiare
di Tiziana Boldrini
Che lavoro faccio?
Ogni volta che mi fanno questa domanda mi chiedo: E ora? Da dove parto?”.
Faccio… ehm… dunque… tento di ristrutturare situazioni familiari complesse, a volte inesistenti. Mi occupo di dare seconde, a volte anche terze, possibilità. Mi occupo di situazioni gravemente provate, metto insieme figli e genitori.
Lavoro come educatrice. Sono una mediatrice familiare. Trovo risorse.
Comunque la giro, non è mai sufficiente, mi guardano perplessi e poi segue un: «Ahhhh. Cioè?», oppure «Wow, coraggiosa!». Comunque la dico, non mi piace mai e penso che l’altro nel frattempo stia già pensando a cosa preparare per la cena. Trovo che il mio lavoro sia la mia passione, e visto il tempo che ci dedico, direi che oggi è una gran fortuna.
Preparo il colloquio
Questa settimana affronto un colloquio importante, è da inizio settimana che lo preparo, arriva il famigerato giorno, arriva giovedì, e io sono agitata. Mi sono preparata a lungo, ho dedicato tempo per provare a immaginare in che colloquio ci ritroveremo, sono pronta, almeno spero.
Per chi? I protagonisti
La coppia che incontrerò è una coppia di nazionalità mista, lui del Nord Africa, lei italiana. Successivamente a un susseguirsi di eventi traumatici accaduti nella vita della donna, la signora F. resta incinta del suo attuale compagno, il signor P.
Nasce L. e, 6 mesi dopo il parto, la signora F. scappa di casa e si rivolge alla polizia, che poi colloca madre e bambino in una comunità. Non più tardi di tre settimane dopo, F. scappa dalla comunità lasciandoci L.
Dal quel giorno, la coppia di genitori non hai mai più vissuto con il proprio figlio. Inizia il lungo iter giudiziario; Z. trascorre i suoi 9 anni di vita, di comunità in comunità, fino a due anni fa, quando il tribunale per i minorenni dispone un collocamento in affido eterofamiliare e incontri protetti e monitorati. E qui entriamo in gioco noi. E io!
La storia del disaccordo che s’accorda
La coppia è molto arrabbiata per l’andamento del percorso perché, a detta loro, hanno subito diversi torti.
Il signor P. preannuncia in una telefonata di qualche giorno prima di essere molto arrabbiato e deluso dalla lentezza delle procedure, di essere stanco di cambiare continuamente operatori, e così via.
Il signor P. Entra in colloquio e quasi non mi saluta, la signora F. invece, fa un timido accenno con una smorfia che sembra un sorriso.
Cambio il setting e predispongo le sedie in cerchio, seppur in un ambiente piccolo e colmo di scrivanie. Mi accomodo al fianco della signora F. e quasi frontale al signor P. il quale, tre-due-uno-via, non lascia tempo nemmeno ai saluti e inizia a inveire tutto il dicibile, e soprattutto l’indicibile, contro tutti e contro tutto.
Fa un monologo di ameno 10 minuti. La signora resta in silenzio, e io pure. Intanto mi sporgo fisicamente verso di lui, ma a posteriori mi rendo anche conto che per controllare la pancia devo staccare il mio sistema rappresentazionale dominante (auditivo). Non lo sento, osservo la sua postura, vedo la sua bocca muoversi, osservo i suoi occhi e i suoi gesti, arrabbiati a dir poco, e penso: “se esco viva da qui, mi batto le mani da sola”.
Mi riconnetto quando vedo il suo viso farsi meno duro, a quel punto mi inserisco alla prima pausa e inizio il mio discorso. Scelgo un tono basso, che quasi lo costringe a tendersi per sentirmi meglio, controllo il tono, cerco di renderlo caldo, parlo piano, voglio arrivare a lui, ma soprattutto a F., che normalmente è più sensibile alla mia empatia.
«Sig. P. mi rendo conto che la sua rabbia è più che giustificata, probabilmente anche io sarei arrabbiata e sconfortata, ma si metta nei miei panni: se fosse lei qui al mio posto, e qualcuno le chiedesse di monitorare gli incontri, non sarebbe anche lei molto attento e scrupoloso? Se sapesse che da lei dipende il futuro di un bambino, non farebbe piccoli passi ma con la certezza che sono quelli giusti, piuttosto che andare oltre i tempi e rischiare così di dover tornare indietro e creare ulteriore frustrazione e dolore? Adesso, io sono certa che lei e sua moglie non siate degli sprovveduti, e nemmeno arrabbiati con me, capirete per certo che questa è la soluzione migliore. Per il resto, lei mi ha fatto degli appunti su un ritardo, e su una sostituzione. A parte che, se me lo avesse detto 6 mesi fa sarei potuta intervenire in vostro aiuto allora, in ogni caso, mi dica, la prossima volta che dovesse ripresentarsi la stessa situazione, preferirebbe aspettare la sostituta patendo un pochetto di freddo o andarsene facendo così saltare l’appuntamento?». La tecnica usata in questo caso, è la domanda a illusione di alternativa di risposta.
Goal!
Il signor P. è disinnescato, la signora F. mi fa un sorriso sotto i baffi, quasi impercettibile, e io a quel punto posso tornare nel mio cerchio, al mio posto. Il resto sono dettagli, il clima è più sereno, e noi finiamo il nostro colloquio portando a casa tutte le richieste formulate.
Mi congedo dalla coppia, con un sorriso e una battuta fra le mani che si uniscono in una stretta forte: «Signor P. la prossima volta non entri più con quella faccia che mi fa paura!».
Lui mi guarda, sorride quasi timidamente e mi ringrazia.
Grande, il linguaggio dell’accordo 🙂
N.B. Sul nostro corso Il linguaggio dell’accordo,
info > eleonora.saladino@palestradellascrittura.it
- On 9 Gennaio 2015