Lingua e antilingua: un vizio pubblico e privato
di Chiara Lucchini
Antilingua come frutto del terrore semantico, ossia la paura di usare parole semplici e concrete.
Introduciamo un argomento spinoso: l’abuso dei gerghi e del linguaggio burocratico.
Quante volte hai sospirato davanti a una circolare ministeriale?
Quando si tratta di parlar oscuro, il pensiero va alla pubblica amministrazione, ma non sono messe meglio le aziende, le banche, o le assicurazioni.
Chiamalo aziendalese, o corporatese, o gobbledygook, come fanno gli americani. Si tratta sempre della degenerazione del linguaggio professionale.
Ancora: pensiamo ai gerghi dell’informatica, delle procedure per la qualità, delle istruzioni per i medicinali… Un vizio comune.
Nel 1965 Italo Calvino dà un nome a questo vizio: “antilingua”. Famoso il brano del brigadiere che trasfigura e rende incomprensibile la semplice deposizione di un interrogato (a chi non è capitato, dopo il disagio dell’aver subito un furto, di andare a fare la denuncia e dover assistere alla traduzione surreale in “brigadierese”?).
Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare interesse per le cose di cui parla. Crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è più in alto di ciò che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”.
Antilingua come frutto del terrore semantico, ossia la paura di usare parole semplici e concrete, che non fa chiamare le cose con i loro nomi e spinge a ricercare termini altisonanti e artificiosi, a rubare parole all’inglese o ai linguaggi settoriali.
Antilingua come processo mentale che sfoca il significato di ciò che si deve dire e pone in primo piano parole vaghe, per timore di lasciarsi coinvolgere dalla vita che si vive. Un vizio da combattere.
N.B. Gli amanti di Italo Calvino, specie se un po’ fantasiosi, potranno ascoltare la sua profezia del web nei six memos delle Lezioni americane: leggerezza > rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.
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- On 1 Settembre 2017