Pensando di teletrasportarmi nel corpo di un medico inglese
Al mattino entro all’ospedale. Devo affrontare la prima giornata nel mondo alieno.
Ho pensato: qui in penisola italica, per noi medici tira una brutta aria, sarà meglio…
a) mettere il naso fuori di casa per vedere che tempo che fa;
b) andare in un posto dove imparare una lingua utile. E siccome sono troppo vecchia per mettermi a studiare il cinese, rispolvero The grammar you need su cui ho sudato per cinque anni, al liceo.
Dopo mille titubanze, decido di partire e di trascorrere alcune settimane frequentando un Ospedale londinese.
Ma come si fa (per un’italica) a non cominciare con un caffè?
Sono in stra-anticipo, mi avvicino al banco di una nota catena di caffetterie per chiedere un espresso.
So che sarò io a essere vista come un’aliena.
Appeso al lato del banchetto del bar, noto un cartello, che dice più o meno così: se hai delle allergie alimentari, ricordacelo, please, così ti possiamo aiutare.
Mi avvicino al banco, e la signorina mi dice: good morning, darling, how can I help you?
Penso che mi piace questa espressione, trovo sia un bel benvenuto.
Di lì a poco, incontrerò il Prof del Reparto che frequenterò, indiano, e cozzerò contro l’inlgese multietnico di Londra e contro la mia inadeguatezza linguistica.
Ma sarà bello.
Mi domando, una volta iniziato il teletrasporto, cosa mai sia il celebre e celebrato “pragmatismo inglese”.
Forse significa che le parole, gli oggetti, i gesti devono avere una utilità pratica, devono risolvere problemi.
Da qualche parte devo cominciare, a capire quello che vedo e sento ogni giorn, in questa città che ti accoglie e ti esplode addosso…
1. C’è una “entità” che mi spiega pazientemente le regole e mi dà gli avvertimenti come se avessi due anni e per tutta la vita.
Mind the gap, mind the doors opening, mind the doors closing, wash your hands.
SCRITTE sui muri, ripetute dagli altoparlanti.
In tono very polite, mai autoritario nè scortese. Regole sempre precedute dalla parola PLEASE. E sempre seguite dalla parola THANK YOU.
Le infermiere durante la distribuzione della terapia indossano un sovracamice rosso fiammante con scritta enorme: drug round, PLEASE do not disturb.
Ti abitui a questi input e le abitudini, che altro non sono che regole che diamo a noi stessi, sono rassicuranti, disciplinanti, mettono ordine.
2. Le tre parole che ripeto con maggiore frequenza ora che mi sono teletrasportata in questo corpo sono: please, thank you, sorry.
Se urto uno per la strada dico sorry, l’altro fa lo stesso, così è improbabile che uno dei sue si arrabbi.
E se dico please anche se chiedo qualcosa di faticoso per l’altro, questo è ben disposto.
Quando mi trovo sul posto di lavoro, che nel mio caso è un ospedale, vado a presentarmi e dico il mio nome e la mia qualifica.
Qualsiasi cosa decida di fare a quei poveri pazienti terrorizzati io spiego loro, ma perché dovrei pensare anche per una sola volta di non doverlo fare?
E poi perchè dovrei comportarmi come se quelle persone non fossero quelli cui io devo fornire un servizio?
Così se dopo che ho fornito una spiegazione mi viene detto thank you doctor, io rispondo you’re very welcome oppure my pleasure.
Se un infermiere fa le cose che gli dico di fare, io gli dico grazie, perchè anche se è tenuto a fare ciò che gli ho detto, se gli dico grazie saremo entrambi ben disposti.
Questa triade di parole si traduce in una gentilezza apparentemente formale che si traduce però in sostanza.
Non ho mai visto in trenta giorni (periodo breve, lo so) un operatore rivolgersi in modo sgarbato a un paziente o a un familiare.
E per chi lavora in sanità, e per chi della sanità fa uso come utente, non raccontiamoci che la la scortesia, la indisponibilità, non sono un problema.
Penso che forse queste tre parole sono i rudimenti del linguaggio dell’accordo: sorry, please, thank you.
3. Visto che sono un cittadino medio, non è detto che io abbia un QI elevato.
Lo dice Darwin, la cui statua troneggia nel National History Museum.
Comunque nessuno nasce colto solo perché vive nella culla della civiltà o nel paese con il più alto numero di opere d’arte, no?
Se vado in un museo o a una mostra, mi piace vedere questi enormi cartelloni, facilmente leggibili, esteticamente gradevoli, e pure questi mi spiegano le cose come se fossi un bambino di due anni.
Così quando esco, pur restando mediocre esemplare di homo sapiens, magari qualche domanda il mio cervello se la fa.
Lo Stato mi aiuta ad accrescere la mia cultura, mi aiuta nella mia educazione. Gli ingressi ai principali musei sono gratuiti.
Non capisco perchè sembro sorpresa di questo fatto, come se ci fosse un posto nel mondo dove le cose potessero andare diversamente.
Non posso immaginare che ci siano musei e mostre pieni di opere strablianti, di cui tanta gente si vanta e che in pochi conoscono o provano a capire.
A che serve tanta bellezza se non la si usa?
Non so perché, nonostante il mio teletrasporto, sento la mia coda di paglia che prende fuoco.
4. Esiste una linea guida per ogni cosa, qui.
In ospedale e per vendere le pentole.
Così, se anche non sono capace, c’è qualcuno che mi dice cosa fare e io devo fornire quel livello base di prestazione perché questo viene verificato.
La fascia media (circa il 95%) delle scimmie umane non è geniale o intuitiva e ha bisogno di una (linea) guida.
È rassicurante, questa è la verità.
Certo, magari ci sono persone più creative, che sanno arrangiarsi al di fuori delle situazioni descritte dalle LG, tipo gli italici, dicono che siano genio e sregolatezza.
Ma a questo punto, a metà del viaggio tra i due corpi, mi capita di domandarmi: cosa è meglio?
Insomma, mi chiedo: non sarà che nella nostra penisola ci sia troppa variabilità, nel singolo reparto, nel singolo ospedale, nella singola provincia, e così via, in base alla buona volontà del singolo operatore?
5. Se c’è un problema, forse la cosa migliore è parlarne e cercare una soluzione.
Anzi, facciamo che una volta ogni tot ci troviamo, facciamo il punto della situazione, ci diamo degli obiettivi.
Il lunedì riunione con il team riabilitativo, il martedì coi radiologi si discutono tutti i casi della settimana prima, il venerdì incontro di aggiornamento aperto a tutti, una volta al mese riunione dei medici supervisori.
E se c’è un problema, o una persona/problema, this is not a blaming society, insomma se serve ti prendo da parte, ti faccio un culo così ma poi cerchiamo un modo di risolvere il problema.
È molto bello, quando questo accade.
Ogni mese facciamo un meeting, si chiama morbidity and mortality meeting, parliamo di every single death per vedere se abbiamo commesso degli errori e come possiamo migliorare.
Se un familiare o un Paziente sporgono un reclamo, ci incontriamo con loro, li ascoltiamo, magari hanno solo bisogno di sfogarsi e non hanno intenzioni bellicose, spesso succede questo, a qualsiasi longitudine e latitudine.
E poi ne parliamo tra di noi, cerchiamo di capire dove abbiamo sbagliato (perché qualcosa abbiamo sbagliato), e non c’è nulla di male nell’ammetterlo.
6. Take care
È quasi ora di teleritrasportarmi nel mio corpo di italica e di tornare nella meravigliosa e trascurata Italia.
Beviamo una birra e c’è aria di commiato.
Il mio inglese è un poco migliorato in quattro settimane, e riesco a capire meglio ciò che mi viene detto.
Ho ascoltato spesso, al termine delle visite in ambulatorio, un’espressione di commiato che ora amo molto e che stasera mi viene di continuo rivolta: take care.
Non è un gran bel modo di salutare qualcuno?
C’è tanta forma che è anche sostanza, qui, e concorre, per quanto ho potuto vedere da aliena, a mantenere i rapporti professionali in un territorio molto, molto civile.
7. Il succo del discorso
Dopo qualche mese trascorso a casa, ripenso al teletrasporto.
L’innamoramento è sempre rischioso, irrazionale, tempo-dipendente, so bene che il soggiorno è stato breve, e l’occhio concentrato su ciò di cui avevo bisogno e che mi ha affascinata.
Oggi mi faccio questa domanda: cosa c’è dietro la netta impressione che la lingua inglese sia più diretta, chiara, sincera, efficace?
In fondo il vocabolario inglese ha molti più vocaboli del nostro, centinaia di migliaia.
Quindi?
Mi rendo conto allora di una cosa.
Ho potuto provare la sublime esperienza di dover sopravvivere con un vocabolario ristretto, per la mia incompleta conoscenza della lingua.
Mentre ero lì, percepivo questo come un limite.
Ora mi pare sia stata una risorsa perché mi ha permesso di eliminare il superfluo.
Mi sono svestita per un mese della mia antilingua, dei miei tecnicismi.
E le mie energie comunicative si sono dovute per forza concentrare sul succo del discorso.
Succo del discorso che trovo gli anglosassoni siano particolarmente abili nello spremere.
E, sorpresa, non ho fatto una doccia fredda in un’altra antilingua.
Ho insomma avuto l’inaspettato regalo di vivere un’esperienza linguistica e comunicativa quasi come se fossi un bambino, in un paese dove tutto è spiegato e comunicato in modo semplice ed immediato.
Tutto, ma proprio tutto.
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N.B. Sul tema vedi anche:
. Il linguaggio della salute – la cura delle parole al Niguarda – 20 dicembre 2012. L’uso del “medichese” fuori luogo sono lo spunto per riflettere insieme sull’importanza di una comunicazione chiara.
. Convegno relazione linguaggio e salute – Novara 12 aprile 2013 – i sistemi rappresentazionali – Sistemi rappresentazionali (visivi, auditivi, cenestesici)
. Convegno relazione linguaggio e salute – Novara 12 aprile 2013 – le resistenze – In che modo le persone ci resistono?
. RAI 3 Il linguaggio della salute 14/07/2008 – parte prima – Alessandro Lucchini, ospite della trasmissione mattutina “Cominciamo bene estate” condotta da Michele Mirabella, parla della ricerca pubblicata su “Il linguaggio della Salute”.
. RAI 3 Il linguaggio della salute 14/07/2008 – parte seconda
. Il linguaggio della salute – Trento 01/10/2008 – “A tutti coloro che non potendo essere santi si sforzano di essere medici. Albert Camus”
. Il linguaggio della salute
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- On 7 Novembre 2014