Bilinguismo: cosa cambia nel pensiero quando cambia la lingua
di Geraldine Meyer
I libri sono sempre fonte di ispirazione per pensieri vari. La recensione di un testo è diventata pretesto per riflettere sul concetto di bilinguismo.
Stavo recensendo l’ultimo libro di Emmanuel Carrere quando, a un certo punto, mi sono accorta che, anche là dove non era esplicitamente espresso, qualcosa insisteva sull’uso di una lingua piuttosto che un’altra. Non starò a raccontare qui la storia narrata in questo testo; non è questa la sede. Mi limiterò a “usare” questo libro come supporto per alcune riflessioni. Nel libro in questione, in buona parte autobiografico, Carrere insiste spesso sulla necessità, irrimandabile per lui, di recuperare una parte della sua vita e di come questo recupero narrativo non possa prescindere dalla lingua russa. La lingua di sua madre. Lingua che, per altro, sua madre non ha mai usato con lui. Fin qui niente di originale o innovativo.
Ma cosa cambia nel cervello quando cambia la lingua? Ciò che ha attirato la mia attenzione è stato notare come, con la lingua, cambia la struttura del testo e quindi del pensiero di Carrere. Chiariamo subito che stiamo parlando di un testo tradotto. Ma è innegabile che, anche in traduzione, non si possa sorvolare su un cambio di registro. Come se il cervello rispondesse in modo diverso a seconda della lingua usata. Lo scrittore racconta di come il suo umore, la sua progettualità dipendessero dalla velocità con cui riusciva a rispolverare questa lingua. Il suo bisogno di liberare da strati di tempo ed esperienze il russo non è solo legato al fatto che, in quel periodo, si trovasse in Russia per lavoro. Questo è ovviamente uno solo dei motivi e non certo il più importante.
A cosa serve una lingua? Leggendo, o meglio ascoltando il testo, si avverte un’urgenza che va al di là del bisogno di comunicare, di capire e farsi capire. È come se il russo gli consentisse di abbracciare una storia intera. Il francese, lingua in cui è scritto l’intero libro e lingua con cui vive e parla lo scrittore sembra divenire qualcosa di contingente. Una lingua una vita. Non posso certo far finta di non trovarmi davanti a un’opera letteraria, ma nessuno mi leva dalla testa che ci troviamo tra le mani un testo che un neurolinguista non dovrebbe farsi scappare. Certo ci sono anche componenti psicoanalitiche profonde. Ma ora non vorrei tenerne conto perché è altro ciò di cui vorrei parlare. Quello che trovo affascinante del mestiere di scrivere è la possibilità che offre di affrontare le questioni proprio attraverso ciò che sfugge. Come se la mancanza di intenzionalità rendesse più autentico il messaggio. Sono certa che Carrere non volesse parlare di bilinguismo, ma il suo libro ha messo in luce proprio questo elemento. Mi fa pensare a quello che gli anglosassoni chiamano serendipity, cioè il trovare qualcosa che non si sta cercando.
Qualche esempio concreto. E così mi trovo a pensare a due amiche bilingui, una italo francese e l’altra italo tedesca. La prima, Vèronique, in italiano aveva un eloquio molto preciso, ricco, brillante e molto ironico. Anche la sua espressione, direi simpatica di natura, dava a ogni suo discorso un che di leggero, comunicativo, immediato. Indipendentemente dalla serietà dell’argomento. Quando passava al francese sembrava cambiare anche mimica. Usava parole che, al di là del tradimento implicito in ogni traduzione, in italiano non avrebbe mai usato. Sembrava più misurata. Come se la lingua materna portasse con sé un fantasma materno di controllo. Cambiava la lingua e cambiava i pensieri. Come se questi rispondessero in modo diverso alle diverse modulazioni linguistiche. E non era solo un diverso modo di veicolarli. Non sto dicendo nulla di nuovo, mi sto solo divertendo a notare come teorie di neurolinguistica e di psicolinguistica, che saremmo spesso tentati di considerare masturbazioni cerebrali, siano in realtà suffragate in continuazione dalla pratica quotidiana del parlare. Veniamo all’altra mia amica, Barbara. Più che l’italiano si piccava di parlare fiorentino. Anche lei, in questo caso sottolineava le sue parole con una mimica molto colorita che, a pensarci dopo, verrebbe da dire che non potesse che appartenere a un’italiana. Al di là dei luoghi comuni (che per altro non bisognerebbe mai snobisticamente sottovalutare) era evidente anche nel suo caso come la lingua si modellasse su gesti ed espressioni peculiari degli italiani. Quando parlava tedesco, oltre a una direi ovvia marzialità, cambiava addirittura voce. E qui la glottologia avrebbe da dare i suoi contributi. Certo che una parola, costringendoci a muovere l’apparato fonologico in un determinato modo, non può non influenzare il modo in cui si parla. Ma qui abbiamo a che fare con qualcosa di più sottile di un semplice fattore meccanico. Insomma non credo di andare molto lontano dal vero quando dico che, a seconda dell’idioma che utilizzavano, mi sembrava di avere a che fare con due persone diverse. Un altro particolare che mi colpiva era il fatto che spesso il passaggio dall’italiano al francese o al tedesco non rispondesse solo a un esigenza emotiva (di pancia direi), ma a un bisogno di segretezza. La lingua usata come un modo per comunicare con una sola persona escludendo tutti gli altri. Non credo ci fosse un’intenzionalità diabolica in questo, solo un bisogno di rassicurazione attraverso l’uso di un lessico familiare, quasi una lingua da gemelli, preclusa ai più. Che poi qualcuno tra i presenti potesse anche capire il francese o il tedesco credo non abbia mai costituito un elemento razionale nel pensiero delle due mie amiche.
Altre domande. Forse mi sto addentrando in questioni talmente sottili da rasentare l’evanescenza ma credo anche che un altro fattore contribuisca ad aumentare il fascino di questo discorso (non il mio, per carità; quello del bilinguismo): e cioè cosa cambia se la lingua diciamo “straniera” è materna o paterna. Qui bisogna davvero fare uno sforzo di umiltà e abbandonare le letture psicoanalitiche eventualmente affrontate nella vita che porterebbero a ritenere la lingua paterna una lingua severa e rigorosa. La lingua che stabilisce le regole. Mi chiedo solo, per esempio, e chiedo a chi avrà la pazienza di leggermi, quante volte un padre chiama “amore” un figlio? In che lingua ascolta questa parola un bambino? Ripeto, anche qui siamo nell’ordine della generalizzazione, della semplificazione. Del resto a volte bisogna parlare di grandi numeri perché altrimenti non si potrebbe andare avanti con il ragionamento. Se si tenesse conto di tutte le eccezioni si rimarrebbe immobilizzati. Chiudo sperando di avere semplicemente stimolato qualche curiosità. A me ne sono venute molte. Che restano aperte.
- On 16 Ottobre 2012