Parlare con filosofia
di Lodovica Maria Zanet
Il Festivalfilosofia di Modena: un`occasione per riflettere sull`uso delle parole
Chi ha detto che l’astrazione filosofica faccia viaggiare il linguaggio su una corsia preferenziale alla quale solo pochi, se non pochissimi, eletti avrebbero accesso? E chi ha detto che per essere un buon filosofo basti saper usare con garbo espressioni come “performatività degli atti”, “intuizione trascendentale” o “eterogenesi dei fini”?
Il Festivalfilosofia di Modena, un evento capace di raggiungere (dati ufficiali resi noti dal Consorzio Festivalfilosofia 2009 il 25 settembre) le 160.00 presenze, richiamando un vasto quanto eterogeneo pubblico nel quale almeno una persona su quattro ha conseguito la sola licenza media, sembra essere nato per smentire questi e altri pregiudizi.
Evento per certi aspetti unico – è un Festival in cui ogni anno viene scelta una parola chiave intorno alla quale tutti gli eventi culturali ruotano – la tre giorni emiliana è un’occasione unica per sperimentare un uso particolarissimo della parola letta e scritta. Occasione unica nella scelta dei relatori, convocati perché filosofi e ritenuti dunque capaci di teorie che diano di fenomeni ormai noti una decifrazione innovativa. Unica nella scelta dei temi, grandi parole tratte dal linguaggio quotidiano che subiscono però un’inaspettata ristrutturazione del loro significato e denotano, alternativamente, più o meno cose rispetto a quelle che normalmente significano. Unica nella presenza del pubblico, pensato come parte a tutti gli effetti integrante del Festival e interlocutore privilegiato.
Descrivere le cose come sono
Accade così che la lingua parlata diventi una lingua nuova: lingua filosofica che non ha però nulla della spesso inelegante rigidità del linguaggio accademico e che assume tratti di una più raffinata precisione terminologica e argomentativa.
Che parli dal palco di Piazza Grande a Modena o dalla Corte di Palazzo ducale a Sassuolo, il relatore apre i giochi con la più classica delle mosse: l’enunciazione della propria tesi. Per poi stupire.
Tralasciato il metodo deduttivo, che porta l’uditorio al forzato riconoscimento di una conclusione dimostrata evidente, i filosofi del Festival preferiscono sia il pragmatico procedere per esempi sia il metodo induttivo. Raccolgono cioè alcune evidenze in apparenza slegate le une dalle altre, le tessono insieme attraverso una stringente retorica e le orientano alla dimostrazione della tesi.
Ai pochi filosofi che danno l’impressione che le cose siano in un certo modo perché sono loro a volerlo, e per i quali è dunque la teoria a dare forma alla realtà, si contrappongono infatti i filosofi le cui teorie corrispondono al tentativo di descrivere le cose per come esse sono.
Se nel primo caso il linguaggio precede e incalza, nel secondo e ben più frequente caso il linguaggio invece insegue. Che il testo scritto e declamato o il discorso orale e improvvisato procedano lineari o tortuosi, agili o affaticati, il risultato è sempre lo stesso: il filosofo prova a guardare la realtà e a carpirne i segreti per renderne partecipi gli altri. Il pubblico, muto, sta in ascolto allo stesso modo in cui si sta in attesa.
Torneo di opinioni
È accaduto nelle precedenti edizioni del Festival ed è capitato anche quest’anno, quando ad andare in scena è stata la “comunità”: le oltre cinquanta lezioni pubbliche hanno messo in scena un torneo di opinioni considerate filosofiche perché “vere e fondate”, apportatrici di un’evidenza capace di transitarle dal singolare all’universale, dal soggettivo all’oggettivo.
C’è chi, come il filosofo della UCLA Remo Bodei, ha ripercorso le tappe storico-politiche che hanno portato alla nascita delle comunità contemporanee e dei loro spesso instabili assetti. Chi come Roberta De Monticelli, la filosofa della persona dell’Università Vita-Salute S. Raffaele di Milano, ha chiesto l’aiuto di Francesco Guicciardini per comprendere le ragioni di fasti e nefandezze del vivere pubblico di oggi. Chi ha parlato di comunità cristiana e di comunità monastiche (Piero Coda, Enzo Bianchi) e chi, come Salvatore Natoli, ha giocato il tutto per tutto sulla “fiducia”.
Si sono fatte lunghe citazioni e messi a confronto autori del presente e del passato. Si è pensato di individuare le sottili linee di demarcazione che distinguono l’uso corretto di un termine dalla sua variante scorretta, oppure il senso positivo dal senso negativo di una parola. Si è parlato di individualità(senza la quale non si riuscirebbe a comunicare, perché gli interlocutori dimenticherebbero di salvaguardare quelle differenze che rendono efficace il confronto) e di individualismo (che dell’individualità è la variante meno nobile). Si è detto dei mille “moralismi” contemporanei che paralizzerebbero l’agire irrigidendolo nell’ossequio a norme puramente formali; ma si è anche ricordato che qualche volta il moralismo è necessario, se aiuta a ricordare che non tutto è contrattabile o cedibile.
Contenuto e forma: l’eterno dilemma
Soprattutto, si è tentato di adeguare il linguaggio alle cose delle quali appunto deve parlare. E lo si è fatto con l’unico argomento che, dopo tutto, possa considerarsi irrimediabilmente “filosofico”: l’argomento del vero e del veridico. Perché si fa filosofia se il vero ha diritto di precedenza sul verisimile e sull’utile, sull’efficace e sul probabile. Se s’inizia dalla sostanza, per adeguarle una forma. Se si parte da un contenuto coerente e completo, senza il quale ogni forma di comunicazione risulterebbe, presto o tardi, vana.
- On 7 Settembre 2012