
Il principio dell’iceberg
di Chiara Lucchini
Il vecchio e il mare avrebbe potuto esser lungo più di mille pagine, ma Hemingway ha cercato di fare qualcosa di diverso: prima di tutto eliminare le parti superflue. Così spiega in un’intervista a George Plimpton nel 1954. Lo stesso ha fatto nei racconti Un posto pulito illuminato bene e Colline come elefanti bianchi. Scrivere secondo il principio dell’iceberg: “i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi”.
L’importante è quel che non si vede
E porta l’esempio de Il vecchio e il mare, che avrebbe potuto esser lungo più di mille pagine: avrebbe potuto sviluppare gli abitanti del villaggio, spiegare come sbarcano il lunario, come sono nati, se hanno studiato, se hanno avuto figli. Ma ha cercato di fare qualcosa di diverso da quello che già altri scrittori avevano fatto in modo eccellente. «Prima di tutto eliminare tutte le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali. È un’impresa difficilissima, e ho dovuto lavorare sodo», afferma.
Ammette anche di essere stato fortunato, con quella storia: «mi sono ritrovato con un brav’uomo e un bravo ragazzo, quando negli ultimi tempi gli scrittori si sono dimenticati che esistono personaggi di quel tipo. Poi c’era l’oceano, su cui valeva la pena scrivere, quindi di nuovo ho avuto fortuna».
Qual è la parte rimasta nascosta dell’iceberg? Hemingway racconta di aver visto i marlin accoppiarsi, e ha lasciato perdere. In quello stesso braccio di mare aveva visto un branco di cinquanta balene, e una volta aveva provato a prenderne una lunga novanta metri con il rampone, ma non ce l’aveva fatta. Così ha lasciato stare anche le balene. E ha lasciato stare tutte le storie che sapeva sul villaggio di pescatori. Tutte quelle cose potevano rimanere sommerse.
Un posto pulito illuminato bene
Scritto da Hemingway nel 1926, a soli 28 anni, Un posto pulito illuminato bene è contenuto nella raccolta I quarantanove racconti.
In questo racconto notiamo il principio dell’iceberg.
Era tardi e tutti avevano lasciato il caffè tranne un vecchio seduto all’ombra che le foglie
dell’albero disegnavano contro la luce elettrica. Di giorno la strada era polverosa, ma di notte la
rugiada fissava la polvere e al vecchio piaceva stare seduto fino a tardi perché era sordo e di notte
c’era un gran silenzio e lui avvertiva la differenza.
Un caffè, una notte. Un vecchio sordo. Inizia il dialogo tra due camerieri, uno più giovane e uno più anziano:
- La settimana scorsa ha tentato di suicidarsi, – disse il cameriere.
- Perché?
- Era disperato
- Per cosa?
- Niente.
- Come sai che non era niente?
- Ha un mucchio di quattrini.
Il vecchio chiede un altro brandy. Il cameriere giovane vorrebbe mandarlo via, chiudere il locale e tornarsene a casa: si lamenta perché non va mai a letto prima delle tre e perché a casa ha una moglie che lo aspetta. Alla fine riesce a mandare via il vecchio.
- Perché non hai lasciato che restasse qui a bere? – chiese il cameriere che non aveva fretta. Stavano abbassando le serrande. – Non sono ancora le due e mezzo.
- Voglio andare a letto.
- Cos’è un’ora?
- Per me più che per lui
- Un’ora è uguale per tutti.
- Parli anche tu come un vecchio. Può comprarsi una bottiglia e bersela a casa.
- Non è la stessa cosa.
Tre personaggi, tre fasi della vita: l’insofferenza della giovinezza, il disincanto dell’età matura, la muta disperazione della vecchiaia.
I due camerieri sono colleghi. Ma quando il più anziano fa notare al più giovane che ha tutto, perché ha giovinezza, fiducia e un lavoro, l’altro gli chiede: «E a te cosa manca?». «Tutto tranne il lavoro», risponde il cameriere anziano.
- Io sono di quelli ai quali piace stare al caffè fino a tardi, – disse il cameriere più vecchio. – Con tutti quelli che non vogliono andare a letto. Con tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte.
- Io voglio andare a casa e a letto.
- Siamo due razze diverse, – disse il cameriere più vecchio. Adesso si era vestito per andare a casa. – Non è solo questione di giovinezza e di fiducia, anche se sono bellissime cose. Ogni notte io sono restio a chiudere perché ci può essere qualcuno che ha bisogno del caffè.
- Hombre, ci sono delle bodegas aperte tutta la notte.
- Non capisci. Questo è un caffè piacevole, pulito. È illuminato bene. La luce è molto buona e, adesso, ci sono anche le ombre delle foglie.
Il cameriere più anziano capisce il vecchio che voleva rimanere nel locale fino a tarda notte. Perché aveva tentato di suicidarsi? “Niente”, era stata la risposta all’inizio. Il niente è il segreto condiviso tra il vecchio e il cameriere anziano.
Di che cosa aveva paura? Non era né paura né timore. Era un niente che conosceva troppo bene. Era tutto un niente, e anche un uomo era niente. Era soltanto questo, e tutto quello che ci voleva era un certo ordine, e una certa pulizia. Alcuni ci vivevano e non lo avvertivano mai, ma lui sapeva che era tutto nada y pues nada y nada y pues nada. Nada nostro che sei nel nada, nada sia il nome tuo il regno tuo nada sia la tua volontà nada in nada come in nada. Dacci questo nada il nostro nada quotidiano e nadaci il nostro nada come noi nadiamo i nostri nada e non nadarci in nada ma liberaci dal nada; pues nada. Ave niente pieno di niente, niente sia con te.
Dopo questa preghiera, il cameriere si ferma in un bar. Nota che la luce è molto viva e piacevole, ma il banco non è lucido.
Non gli piacevano né i bar né le bodegas. Un caffè pulito, illuminato bene, era una cosa molto diversa. Adesso, senza pensarci più, sarebbe tornato nella sua stanza. Si sarebbe messo a letto e finalmente, alle prime luci dell’alba, si sarebbe addormentato. Dopo tutto, si disse, probabilmente è soltanto insonnia. Chissà quanti ce l’hanno.
Al lettore restano molte domande. Perché il vecchio ha provato a suicidarsi? Dove sarà andato dopo essere uscito dal caffè? Perché il cameriere è così angosciato? E perché, se il niente è niente, quella preghiera angoscia anche me lettore?
Colline come elefanti bianchi
Può sembrare sfuggente, a una prima lettura: forse perché Colline come elefanti bianchi è il racconto in cui più di ogni altro Hemingway ha lavorato secondo il principio dell’iceberg.
Dell’origine del racconto Hemingway dice qualche parola nell’intervista a George Plimpton: «A Prunier, dov’ero andato a mangiare le ostriche prima di pranzo, ho incontrato una ragazza che sapevo aveva abortito. Mi sono avvicinato e abbiamo cominciato a parlare, certo non di quello che era successo, ma poi, tornando, pensavo alla sua storia, e quando sono arrivato a casa ho saltato il pranzo e ho lavorato tutto il pomeriggio».
Il racconto inizia con la descrizione del luogo. La voce narrante è distante, come una macchina da presa che consente di vedere il paesaggio e di sentire il dialogo tra i due personaggi. Questi sono “l’americano e la ragazza”, che poi scopriremo chiamarsi Jig. Sono in una stazione, stanno aspettando un treno diretto a Madrid. In lontananza si stagliano delle colline “lunghe e bianche”.
Questa tecnica narrativa è detta della focalizzazione esterna: il narratore riporta comportamenti e dialoghi come in una secca e fedele cronaca, senza mai fornire indicazioni sulle motivazioni psicologiche da cui scaturiscono. Centrale il dialogo, che abolisce l’azione. Non sappiamo niente degli antefatti, niente dell’oggetto di cui stanno parlando i protagonisti, su cui possiamo solo fare congetture.
Dei personaggi, quindi, sappiamo poco. Il modo in cui vengono nominati ci suggerisce qualcosa sulla differenza di età, confermata dalle prime battute: la ragazza chiede conferma all’uomo anche sulle più piccole decisioni (una nuova bibita: con l’acqua o senza?), mentre l’uomo parla come chi sa, chi conosce le cose perché ha esperienza.
- Sa di liquirizia, – disse la ragazza, e depose il bicchiere.
- È così per tutto.
- Sì, – disse la ragazza. – Tutto sa di liquirizia. Tutte le cose, in particolare, che si sono aspettate tanto. Come l’assenzio.
- Oh, smettila.
- Hai cominciato tu, – disse la ragazza. – Io mi divertivo, me la spassavo.
- Be’, cerchiamo di spassarcela.
- Ci stavo provando. Dicevo che i monti sembrano elefanti bianchi. Non è stata un’osservazione intelligente?
- È stata un’osservazione intelligente.
- Volevo assaggiare questa nuova bibita. È tutto quello che facciamo, no? Guardare cose e assaggiare nuove bibite.
- Credo di sì.
La ragazza guardò le colline.
Già in queste prime battute emerge la distanza tra i due. La ragazza guarda in lontananza verso le colline in fondo. L’uomo si limita a bere la sua bibita.
Presto capiamo, però, che la ragazza sta parlando di altro. Che c’è qualcos’altro che rende impossibile spassarsela.
- È davvero un’operazione semplicissima, Jig, – disse l’uomo. – Veramente non la si può neanche chiamare un’operazione.
La ragazza guardò il terreno sul quale poggiavano le gambe del tavolo.
(…) - E cosa faremo dopo?
- Staremo benissimo, dopo. Come stavamo prima.
- Cosa te lo fa credere?
- È l’unica cosa che ci preoccupa. È l’unica cosa che ci ha reso infelici.
La ragazza guardò la tenda di bambù, tese la mano e s’impadronì di due filze di tubetti. - E tu pensi che dopo staremo bene e saremo felici?
- Lo saremo. Non devi avere paura. Conosco un sacco di gente che l’ha fatto.
- Anch’io, – disse la ragazza. – E dopo erano tutte così felici!
La parola “aborto” non viene mai nominata: è solo “un’operazione semplicissima”.
Distanza, incomprensione, un diverso modo di vivere e percepire la portata di quell’evento, il rilievo di quell’operazione e delle conseguenze che ne derivano.
Il livello di incomunicabilità cresce.
- La ragazza si alzò in piedi e camminò fino in fondo alla stazione. Dall’altra parte, di là dai binari, c’erano dei campi i grano e degli alberi sulle rive dell’Ebro. Lontano, oltre il fiume, c’erano delle montagne. L’ombra di una nuvola passava sul campo di grano, e tra gli alberi si vedeva il fiume.
- E potremmo avere tutto questo, – disse la ragazza. – E potremmo avere tutto e ogni giorno lo rendiamo sempre più impossibile.
- Che hai detto?
- Ho detto che potremmo avere tutto.
- Possiamo avere tutto.
- No che non possiamo.
- Possiamo avere il mondo intero.
- No che non possiamo.
- Possiamo andare dappertutto.
- No che non possiamo. Non è più nostro.
- è nostro.
- No, non lo è. E quando te l’hanno portato via, non riesci a riaverlo mai più.
Non sappiamo cosa succederà a Jig dopo essere salita sul treno, non sappiamo come riassesterà il suo rapporto con il mondo e con se stessa. Conosciamo solo le sue parole, in chiusura al racconto:
- Ti senti meglio? – domandò lui.
- Mi sento bene, – disse lei. – Non ho niente. Mi sento bene.
Se volete leggere i due racconti di Hemingway, li trovate a questi link:
Un posto pulito illuminato bene
Colline come elefanti bianchi
- On 14 Novembre 2018