“L’Italia woke up”
La lingua è una questione di classe? (doppio senso)
di Lorenzo Carpanè
La stampa inglese, di questi tempi (e non solo, a dire il vero), è spesso luogo di discussioni sulla lingua. Tra gli ultimi interventi, quello di James Meek, che già dal titolo promette faville: Rise up, rebel, revolt: how the English language betrays class and power.
(https://www.theguardian.com/books/2019/sep/06/language-of-division-english-fractured-society).
È un lungo articolo che parte dall’origine “tripartita” della lingua inglese (anglosassone, latina, francese) che mette in correlazione con le tre storiche classi sociali di borghesia, chierici, aristocratici). Se così è stato nei secoli scorsi (almeno fino Enrico VIII), è ancora così? E cos’hanno offerto e offrono ancora oggi le parole di origine non sassone? E cosa sarebbe della lingua inglese privata di questa ricchezza? Ironicamente, ne verrebbe fuori che “God beery our gladman Queen” sostituirebbe “God save our gracious Queen”.
Sappiamo poi che in Inghilterra uno degli elementi di classificazione sociale sta proprio nella lingua (lessico, accento): di Jacob Rees Moog, deputato Tory, sappiamo non solo che si è sdraiato sugli scranni del Parlamento inglese (la sua foto è su tutti i giornali), ma anche che parla con un accento che vuole far notare l’appartenenza all’upper class.
Senza volere e potere proporre qui un saggio di sociologia della lingua, ecco qualche riflessione.
A proposito dell’Inno nazionale, facciamo un po’ come Meek, sapendo però che la lingua italiana ha ben altra origine e il suo corpus lessicale è per larghissima parte di origine latina.
Prendiamo uno dei versi più noti, “L’Italia s’è desta”. Il verbo “destarsi” appartiene a un registro colto: lo usiamo, specie nello scritto, quando vogliamo porci su un livello stilistico alto. Lo si trova molto sui giornali, nelle comunicazioni ufficiali.
Cioè quando vogliamo scrivere o parlare da “chierici”, cioè da coloro che svolgono professioni intellettuali (“chierici” quindi usato in senso largo, non ristretto al mondo religioso).
Nel linguaggio quotidiano, esprimeremmo il concetto con il verbo “svegliarsi”: l’Inno diventerebbe “l’Italia s’è svegliata”, con buona pace per la metrica. Un verbo da italiano standard della comunicazione. Dante avrebbe detto per i “marcatanti”, potremmo oggi dire proprio della classe borghese.
E gli aristocratici? In Italia, per fortuna, non esistono più (li lasciamo tutti e molto volentieri agli inglesi). Ma Meek definisce tali non solo quelli che lo sono di sangue, ma anche quelli che lo sono per censo, sono quelli dotati di vero potere (economico). E questi oggi spesso sentono il bisogno di usare gli anglicismi per caratterizzarsi. “L’Italia woke up”, diventerebbe.
Che sono anche quelli che usano “quarter” per indicare trimestre, “values” per valori, “target” per obiettivo.
Ciò accade ogni volta che parlo o scrivo: se uso “destarsi”, mi do un valore che è relativo a chi mi ascolta: posso creare relazioni paritetiche o diseguali; così anche se uso “svegliarsi” o “wake up”.
A volte basta una sola di queste espressioni per dare dei segnali ben precisi all’interlocutore e per far arrivare al suo corpo limbico (la parte del cervello che governa le emozioni) una certa percezione di noi, come individui ma anche come appartenenti a una classe sociale di riferimento: chierici, aristocratici o borghesi-lavoratori. È come lanciargli un messaggio subliminale che dice non solo “ehi, voglio farmi capire!” oppure “ehi, guarda che bravo che sono!”; ma anche “ehi, sto sul tuo piano” o invece “guarda che io sto sopra di te”.
Sempre che non si debba dire che non esistono più le classi di una volta. E allora magari sentiremo Mattarella cantare “l’Italia s’è data ‘na mossa”.
- On 9 Settembre 2019