“Pagine dal fronte”. Un romanzo e una domanda: perché scrivere?
di Lorenzo Carpanè
Nella Bohème di Puccini, Rodolfo così spiega a Mimì il suo mestiere: “Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo”.
Parto da qui non per raccontare di questo mio libro, Pagine dal fronte (Alpine Studio, 2020), che certo, mi auguro che voi lettori leggiate. Ma per ragionare con voi sul significato dello scrivere.
Ve lo confesso, mentre scrivevo me lo sono chiesto in svariate occasioni. E me lo chiedo di nuovo ogni volta che, come ha fatto la giornalista del “Corriere”, qualcuno mi pone lo stesso interrogativo. Con il doppio significato della congiunzione ‘perché’: come causa e come fine.
Le risposte sono molte, tenuto conto anche della natura di questo libro: una narrazione che parte dai racconti che mio padre faceva a me quando ero bambino. E quindi immaginate il carico di emozioni che si porta dietro.
No, qui a voi vorrei dirvi quanto è stato generativo e rigenerativo mettere nero su bianco, con questi 22 caratteruzzi la storia di mio padre, quella vera e reale ma anche quella meno reale, e altrettanto vera, che mi sono immaginato per dare spessore e profondità a ciò che lui ha vissuto.
Ho raccontato molto anche di me e nel farlo ho dato forma e materia a ciò che materiale non è: pensieri, desideri, passioni, paure, sentimenti, emozioni e istinti. Un elenco settemplice, cioè di sette elementi, un numero che a noi di Palestra piace, e c’è un perché (che non vi dico qui, ma leggeteci e capirete).
Ho scritto non solo di quel tempo di passione, che va dal luglio del 1942 al febbraio del 1943, e anche dei mesi successivi di lotta partigiana. Ho scritto di ciò che è venuto dopo, di come a noi figli sia toccata in sorte la pace e non la guerra, ma anche, e sempre più la perdita del ricordo della guerra, o meglio della tragedia della guerra.
Ho scritto anche perché (causa, fine) volevo far sentire come noi, collettività italica, secondo me abbiamo perso quel senso del tragico che gli antichi greci sentivano il bisogno di rinnovare continuamente andando a teatro a vedere rappresentate le tragedie del vivere. Andavano anche a vedere le commedie di Aristofane, vero: perché la vita è anche commedia. Ma senza il senso del tragico il rischio che tutti diventi farsa è troppo alto.
E, forse soprattutto, per condividerlo con chiunque voglia ascoltare la mia voce: per contraddirla, modificarla, assimilarla, smentirla. Così le parole generano vita e la vita genera altre parole, in un circolo virtuoso.
E, badate bene, questo vale non solo quando si scrive un romanzo; vale anche quando noi tutti scriviamo per lavoro, per informare, per convincere: dall’altra parte c’è sempre qualcuno che interagisce con le nostre parole. C’è sempre qualcuno che entra in un circuito virtuoso di reciproco apprendimento. Se lo vogliamo. E noi lo vogliamo, vero?
- On 13 Novembre 2020