Parole preziose.
Dalla discriminazione linguistica al dibattito sui nomi delle professioni: sono solo parole?
di Chiara Lucchini
Sono solo parole? Un pensiero contro la discriminazione linguistica
- Un cortigiano: un uomo che vive a corte. Una cortigiana?
- Un massaggiatore: un cinesiterapista. Una massaggiatrice?
- Un uomo di strada: un uomo del popolo. Una donna di strada?
- Un uomo disponibile; un uomo gentile e premuroso. Una donna disponibile?
- Un passeggiatore: un uomo che cammina. Una passeggiatrice?
- Un uomo con un passato: un uomo che ha avuto una vita, in qualche caso non particolarmente onesta, ma che vale la pena di raccontare. Una donna con un passato?
- Uno squillo: il suono del telefono. Una squillo?
- Un uomo di mondo: un gran signore. Una donna di mondo?
- Uno che batte: un tennista che serve la palla. Una che batte?
- Un uomo che ha un protettore: un intoccabile raccomandato. Una donna che ha un protettore?
- Un buon uomo: un uomo probo. Una buona donna?
- Un uomo allegro: un buontempone. Una donna allegra?
- Un gatto morto: un felino deceduto. Una gattamorta?
- Uno zoccolo: una calzatura di campagna. Una zoccola?
Si è aperta così la 62ma edizione dei David di Donatello, con un monologo contro la violenza sulle donne, scritto da Stefano Bartezzaghi e letto da Paola Cortellesi. Un elenco di parallelismi che portano alla luce numerose discriminazioni, esistenti già nel lessico italiano, sulla donna.
Così aveva esordito la Cortellesi:
Ma, conclude: «Per fortuna, per fortuna, sono soltanto parole».
Nomi delle professioni
Fino a metà del secolo scorso, molte professioni erano quasi del tutto precluse alle donne, e questo spiega perché molte professioni erano quasi sempre declinate al maschile (“dottore”, “medico”, “chirurgo”, “giudice”, “sindaco”, “assessore”).
Oggi si pone il problema della qualifica femminile delle professioni, che ha soluzioni più o meno semplici.
Quando il nome ha la stessa forma al maschile e al femminile, si tratta solo di cambiare l’articolo: il presidente/la presidente; il preside/la preside.
A proposito di “la presidente”: Nilde Iotti, prima donna nella storia dell’Italia repubblicana a ricoprire la presidenza della Camera dei deputati, voleva essere chiamata “il presidente”. Ben diverso l’atteggiamento di Laura Boldrini, che – oltre a voler essere chiamata “la presidente” – in una direttiva ai dipendenti di Montecitorio indicava di declinare al femminile le funzioni svolte e indicarle sulla carta intestata: e quindi segretaria, consigliera, direttrice. C’è stata una protesta, soprattutto per la declinazione di segretaria, termine che qualifica tradizionalmente una collaboratrice-assistente, che svolge funzioni ausiliarie. E proprio per il fervore con cui si è lanciata in questa battaglia di genere, Laura Boldrini è stata presa di mira da alcuni giornali, che l’hanno chiamata “la presidenta”. Ovviamente lei non ha mai pensato di farsi chiamare così, ben sapendo che nella lingua italiana “presidente”, che nasce come participio presente del verbo presiedere, vale sia al maschile sia al femminile.
Torniamo alla qualifica femminile dei nomi delle professioni. Questione di facile soluzione anche con i sostantivi dotati di regolare forma femminile: senatore/senatrice, amministratore/amministratrice, direttore/direttrice, redattore/redattrice.
Più difficili i casi in cui il sostantivo maschile non aveva, fino ad oggi, la forma femminile. A favore di “architetta”, “avvocata”, “assessora”, “cancelliera”, “consigliera”, “ingegnera”, “magistrata”, “medica”, “ministra”, “notaia”, “prefetta”, “sindaca” si è espresse varie volte, negli ultimi anni, l’Accademia della Crusca. Quest’ultima ha sottolineato che la declinazione femminile innovativa di molte professioni non solo è corretta linguisticamente, ma è positivamente sintomatica del mutamento di linguaggio a seguito del cambiamento della società e dei ruoli ricoperti da ciascuno.
Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo del MIUR
Il 7 marzo 2018 sono state presentate le linee guida del Ministero dell’Istruzioneper rivedere al femminile gli atti amministrativi.
Se è una donna, si dice e si scrive “la capo di dipartimento”, “la direttrice generale”, “l’ispettrice generale”, “la dirigente scolastica” e “la ministra”. Gli studenti diventano “gli studenti e le studentesse”, “gli alunni e le alunne”. Quindi l’invito è di declinare al femminile anche le parole della scuola, per superare modelli stereotipati dei ruoli delle donne e degli uomini.
“Non si cambia la lingua, si invita a un uso più consapevole di ciò che esprime”, spiega Cecilia Robustelli, docente di linguistica italiana dell’università di Modena e Reggio Emilia. “Conta moltissimo questa revisione nei testi amministrativi, anche nel mondo della scuola, è un segnale importante: è necessario che il linguaggio rifletta il tramonto del modello di omologazione delle donne al paradigma maschile”. Insomma, dire studentesse e studenti, professoresse e professori non è un dettaglio. “Significa far sentire le donne parte attiva della società e non a rimorchio, anche nel linguaggio, degli uomini”.
Scrive nella Prefazione l’ormai ex ministra Valeria Fedeli:
Quindi dire la direttrice generale o la ministra quando è una donna a svolgere questi incarichi è necessario per superare il pregiudizio che si tratti di incarichi prettamente maschili. Così come dire le studentesse e gli studenti o le e gli insegnanti è un modo concreto e semplice per diffondere una cultura dell’inclusione e del rispetto delle differenze.
Change your words, change your world?
La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da tempo argomento di riflessione. In Italia numerosi studi, a partire da Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno evidenziato che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, subalterna rispetto all’uomo.
Dall’accademia e dalle istituzioni sono arrivati forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica. In Italia risale al 2007 la Direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche, che raccomandava di usare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminante. La stessa Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo.
Ma perdurano molto resistenze. Molte donne salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali vengono ancora definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro, il magistrato, l’avvocato, il rettore. Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Forse l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (come ingegnera), o la bruttezza delle nuove forme (ministra non piace), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata anche in riferimento alle donne. Ma allora perché maestra, infermiera, modella, cuoca e nuotatrice non suscitano nessuna obiezione? Forse le resistenze non poggiano su ragioni di tipo linguistico, ma di tipo culturale.
Un problema solo italiano?
In francese si dice “la ministre”, così come “la secrétaire générale”, “la présidente”, l’”envoyée extraordinaire”, “la directrice”, “la secrétaire générale”, “la juge”, “la conseillère”.
In tedesco la donna ministro è “Ministerin”, cioè “ministra”, come una donna cancelliere è “Kanzlerin”, cioè “cancelliera”.
In spagnolo la donna ministro è “ministra”, e se presidente è una donna, al posto di “presidente” (che, come in italiano, è maschile e femminile) è stato inventato un termine nuovo, proprio per far capire il genere femminile, “presidenta”: lo ha stabilito la Reale Accademia spagnola della lingua.
In inglese il problema non esiste, “the minister” è uguale per ministro e ministra come “mayor” (sindaco), “phisician” (medico), “chancellor” (cancelliere) e così via.
“Osate, innovate”
Scrive Mario Nanni, nel suo libro Il curioso giornalista, proprio a proposito di questo tema:
«Ma la lingua, il suo evolversi, seguono altri percorsi da quelli della logica. Si potrebbe dire, come diceva Blaise Pascal del cuore, che la lingua ha le sue ragioni che la ragione non conosce. La legge primaria che decide e regola l’evolversi della lingua non è la logica ma l’uso (dovrebbe veramente essere anche il buon gusto).»
Racconta poi che quando il direttore dell’ANSA Giampiero Gramaglia lo incaricò di costituire una commissione di valenti colleghi per redigere le “nuove regole di scrittura”, ricorda che un pomeriggio incontrò il professor Francesco Sabatini, allora presidente dell’Accademia della Crusca. Gli domandò lumi su come si dovessero regolare proprio sul punto della declinazione di certi titoli al femminile. La sua risposta fu una esortazione:
- Osate, innovate. La legge dell’uso deciderà sul destino di certe parole nuove.
Concludo con una riflessione di Tullio De Mauro, in un’intervista che risale al 2016:
- On 28 Aprile 2018