Di qua e di là della barricata
di Manuela Meriggi
Un medico vive tre situazioni speciali: in ospedale come paziente, senza che il chirurgo sappia di aver di fronte un medico; al pronto soccorso come parente, ad accompagnare la madre a una visita; in ambulatorio, dopo una visita, a riflettere sul proprio stile comunicativo.
1) In ospedale come paziente
Dopo essere stata operata d’urgenza per calcoli alla colicisti, vengo ricoverata tre o quattro giorni in chirurgia per la degenza post operatoria.
Sono un medico, ma, a eccezione del chirurgo che mi ha operata e di altri due chirurghi miei amici, nessuno sembra al corrente della mia professione (dico sembra perché teoricamente sulla cartella sanitaria dovrebbe essere scritto).
Meglio così, in questo modo sono una paziente qualsiasi e posso constatare di persona cosa significhi essere un paziente alle prese con la classe medica e la struttura sanitaria. La cosa mi interessa dal punto di vista sia professionale sia umano e inoltre mi diverte.
Ma oltre a essere divertita, in realtà sono anche un po’ preoccupata perché, a causa di una lieve complicanza, tutti gli esami della funzionalità del fegato e del pancreas sono alterati. Molto alterati. Una mattina, per il giro di corsia, è di turno un chirurgo che non conosco, mi visita e si siede al tavolino per scrivere la cartella.
A un certo punto chiedo: «Mi scusi, sono arrivati gli esiti degli esami del sangue prelevatomi questa mattina?»
Dopo aver controllato in cartella e senza guardarmi, il medico risponde: «Sì, sono arrivati. Vanno meglio».
«Grazie, però vorrei sapere se i valori sono rientrati nella norma e a quanto sono».(1)
«Se le ho detto che vanno meglio, vanno meglio, è inutile che le dica il valore degli esami».
A questo punto, un po’ irritata, rispondo: «Senta, sono un medico, e le ho posto una domanda precisa: voglio sapere i valori dei miei esami».
Da qui è nata una piccola discussione.
Mi sono così resa conto di un paio di cosette: di quanto, a volte, il medico faccia calare dall’alto le notizie, con la supponenza di chi ne sa di più, dando inoltre per scontato l’inutilità che il paziente ottenga ulteriori precisazioni e di quanto tempo si potrebbe guadagnare se si rispondesse con semplicità alle domande poste, invece di stare a questionare.
Considerato il fatto che è proprio alla mancanza di tempo che si imputa la difficoltà di poter comunicare con il paziente.
Tra me e me penso: non era forse più educato guardarmi in faccia, e più veloce rispondermi che le transaminasi erano scese a 70 e 80 e la gammaGT a 100?
2) In ospedale come parente
Qualche mese fa mia madre cade in casa. Dato che è anziana e ha riportato vari traumi, decido di portarla al pronto soccorso.
Le fanno varie radiografie, tra cui una lastra al torace.
Appena avuto il referto, il medico di guardia mi chiama e mi riferisce che c’è un sospetto di tumore polmonare.
Dato che la macchina per la TAC è rotta, mi consiglia un ricovero in un altro ospedale, in modo da poterla eseguire in tempi brevi. Seguo il consiglio. Inizia così la degenza in attesa di questa fantomatica TAC promessami subito, ma eseguita dopo una settimana.
Intanto cerco di raccontare a me stessa che oltre al tumore sicuramente sono possibili altre diagnosi. Un giorno chiedo informazioni al medico di turno, caso vuole un pneumologo, proprio lo specialista adatto. Mi mostra la radiografia e afferma subito convinto che non è un sospetto, ma la realtà.
«Dato che sei un medico ti parlerò chiaramente (3). È sicuramente un tumore polmonare (4). Ora bisogna solo vedere se si tratta di un adenocarcinoma o di un microcitoma (5). Considerata l’età della mamma, non è proponibile l’intervento, quindi dovrà sottoporsi alla chemioterapia o alla radioterapia». (6)
È uno specialista, e io un banale medico di base. Gli credo.
Mi vengono le lacrime agli occhi e l’ansia, già strisciante prima di questo colloquio, sale e comincia a opprimermi. Passo la notte insonne e le mie difese personali, costruite pensando alla possibilità di altre diagnosi, cominciano a vacillare.
Finalmente viene eseguita la TAC. Diagnosi: cicatrice di un vecchio processo tubercolare, non processo neoplastico.
Avrei volentieri strangolato lo specialista. È vero che sono un medico, ma in questo caso ero innanzitutto una figlia. La comunicazione sarebbe dovuta essere diversa, medico o non medico che fossi. Quello specialista avrebbe dovuto fornirmi varie ipotesi diagnostiche, in attesa della diagnosi certa. Arroganza del sapere, definita dal primario presso cui mi sono lamentale solo come irruenza verbale, e non curanza per l’aspetto psicologico che una malattia grave sempre implica.
3) In ambulatorio
Oggi non sono tanto di buon umore, ho un sacco di cose da fare durante la giornata e voglio finire presto l’ambulatorio.
«Buongiorno dottoressa».
«Buongiorno signora, si accomodi. Mi dica.» (7)
«Da un po’ di giorni ho male al collo, inoltre soffro di insonnia da mesi e ho la testa confusa». (8)
Non la visito, non faccio ulteriori domande (9) , prescrivo solo una radiografia alla colonna cervicale e un antidolorifico in attesa del referto della lastra.
Risultato: dopo due giorni la signora torna con gli stessi sintomi, cui se ne sono aggiunti altri (un dolore alla spalla, bruciore alla bocca…). E inoltre mi riferisce di non aver assunto i farmaci perché sicuramente le avrebbero fatto male.
Questa volta la visito, le pongo ulteriori domande anche sui rapporti familiari e sul tempo libero, la ascolto e pongo attenzione a ciò che racconta, a come racconta e alla gestualità che accompagna il racconto. Avevo sbagliato tutto. La signora è depressa. Se le avessi dedicato un pochino più di tempo la prima volta, le avrei risparmiato una radiografia inutile. Rifletto.
Il medico deve saper adattare il proprio linguaggio al tipo di paziente che si trova di fronte (ceto sociale, cultura, capacità di comprensione, psicologia, età, tipo di patologia) e saper ascoltare. Non trincerarsi dietro la scusa che c’è poco tempo. A volte non è necessario un lungo tempo di ascolto, è la qualità dell’ascolto che è importante e il paziente si accorge se prestiamo solo l’orecchio e non la mente.
(1) La paziente pone la domanda con un registro piuttosto alto e formale: “esiti” anziché “risultati”; “del sangue prelevatomi” anziché “del prelievo”. Almeno un sospetto sarebbe potuto venire: un generico “Vanno meglio”, perdipiù senza alzare lo sguardo, non può soddisfare. E infatti, spinge la paziente a precisare la richiesta in modo puntiglioso e piccato: “però” subito dopo “grazie”, “se i valori sono rientrati nella norma” – “a quanto sono”.
(2) Pur ricalcando bene alcune scelte linguistiche della paziente (“se”, “valore”), il medico ripete due volte il proprio “vanno meglio” della prima risposta. Un errore di stile evidente (“è inutile che le dica” – inutile per chi? perché?), e un’opportunità di empatia verbale perduta: anziché incaponirsi sul “vanno meglio”, meglio sarebbe stato usare le stesse parole della paziente: “sì, sono rientrati nella norma”, che magari avrebbero anche ammorbidito la domanda seguente “a quanto sono”. Invece scatta l’indignazione: “domanda precisa”, “voglio sapere” – non più “vorrei” – e “miei esami”.
Solo dopo la dichiarazione “sono un medico” cambiano sia i gesti sia le parole del medico: si gira, si rivolge direttamente alla paziente, passa al “tu” e a un tono apparentemente ammiccante che in realtà veste un altro rimprovero irritante e offensivo (“dovevi”, e invece non l’hai fatto, “dirmelo subito”, e invece hai ritardato…).
(3) “Dato che sei un medico ti parlerò chiaramente.” Interpretazione curiosa e ambigua del rapporto causa-effetto: “dato che” significa “ti parlo chiaro, senza eufemismi, perché hai le competenze e le conoscenze per capire”, oppure “ti parlo chiaro, senza eufemismi, perché meriti trasparenza e rispetto solo per il fatto di essere medico”?
(4) Frase che non lascia dubbi: breve, diretta, sintassi lineare, verbo indicativo presente, avverbio rafforzativo. Un pugno nello stomaco, a freddo.
(5) L’uso dell’avverbio “solo” ribadisce la certezza dello specialista, che indica anche la diagnosi con raggelante lucidità.
(6) “L’età della mamma, non è proponibile l’intervento”: perché non “della tua mamma” e “non possiamo proporre”? Il distacco implicito della forma impersonale raffredda ancora di più la relazione. A completare il quadro, l’inequivocabile connettivo causale (“quindi”), il più duro dei verbi modali (“dovrà”) e un verbo che trasmette un senso di oppressione e fatalità (“sottoporsi”) anche in un campo semantico per natura salvifico come la terapia.
(7) “Buongiorno signora, si accomodi. Mi dica”: ricalco completo della formula di saluto. Ma i due verbi successivi – vicini, incalzanti, imperativi – lasciano intuire la fretta; la struttura ricorda il “Buongiorno signora, desidera?” della commessa al negozio. Almeno, là, c’è il tono cortese della domanda.
(8) Spiccano le generalizzazioni di tempo (“un po’”, “da mesi”) e di spazio (“al collo”) e la vaghezza dei sintomi (“male”, “soffro di insonnia”, “ ho la testa confusa”).
(9) Al medico servono informazioni più dettagliate sullo stato di salute del paziente: l’ascolto attivo può essere un’ottima strategia per raccogliere dati importanti. Anche con poco tempo a disposizione. Esempi:
– da un po’ di giorni > quanti esattamente? più o meno di una settimana?
– ho male al collo > in quale punto? da dove parte il dolore? che tipo di male? costante o a fitte? con quale intensità?
– soffro di insonnia > non dorme del tutto o si sveglia spesso durante la notte? le è successo altre volte?
– da mesi > si ricorda quando ha cominciato a sentirsi così?
– ho la testa confusa > quali sensazioni prova? si sente confusa più al mattino o alla sera?
- On 21 Settembre 2012