Stranieri a colloquio
di Francesca Gagliardi
La tecnologia corre: analisi sempre più sofisticate e terapie all’avanguardia.
Ma quello fra medico e paziente continua a essere un dialogo difficile.
Eppure una buona relazione rende il paziente più consapevole, più partecipe delle proprie scelte, emotivamente più forte, e contribuisce al successo della terapia.
Il difficile dialogo fra medico e paziente
Dal medico, perché? Per guarire da una malattia, ovvio. E per stare meglio: questo è ciò che ci aspettiamo da lui.
Questa è l’opinione condivisa dai pazienti; non da tutti i medici, però. Molti, anzi, ritengono che non sia loro compito occuparsi del benessere dei loro pazienti: le patologie costituiscono il loro interesse.
Eppure ricerche condotte su malati di cancro hanno dimostrato come il benessere psicologico influenzi la sopravvivenza. L’Ospedale Universitario di Hamburg-Eppendorf , per esempio, ha condotto uno studio durato dieci anni su 271 malati di cancro gastrointestinale in attesa di operazione, divisi in due gruppi: il primo ha potuto partecipare a sei incontri con uno psicoterapeuta. Risultato: nei due anni successivi all`operazione, in questo gruppo erano sopravvissuti 69 pazienti su 136; solo 45 sui 135 dell’altro gruppo. I terapeuti avevano fornito sostegno emotivo e cognitivo, per aumentare la forza di contrastare la malattia e controllare la disperazione e il senso di impotenza nei loro assistiti, incoraggiandoli a esprimere dubbi o a chiedere chiarimenti ai medici curanti. Più di un terzo del lavoro ha riguardato proprio le informazioni sulle procedure diagnostiche, il trattamento e la riabilitazione.
La fiducia che il paziente accorda al proprio medico partecipa al processo di guarigione. Quella fiducia si costruisce necessariamente sulla comunicazione: un processo che coinvolge medico e paziente, insieme, e che tiene conto non solo delle informazioni espresse, ma anche – e a volte soprattutto – dei modi con cui vengono trasferite.
Una volta la relazione medico-paziente nasceva dal rapporto umano con il medico di famiglia e si fondava sull’autorevolezza: la sua opinione era indiscutibile. A volte nemmeno compresa.
La difficoltà a comprendere certe espressioni specialistiche è ancora oggi quasi del tutto invariata. Sono cambiate solo alcune condizioni esterne, che spesso aggravano la confusione del paziente.
Il medico di base ha ridotto i tempi di visita medi – oggi circa quindici minuti per ogni assistito – limitando lo scambio di informazioni e il contatto fisico: il medico resta dietro la scrivania a compilare richieste di visite specialistiche, irraggiungibile. Ed è percepito sempre più come un tecnico e sempre meno persona cui affidare le proprie sofferenze; per condividere ansie, preoccupazioni o per chiedere chiarimenti non c’è tempo; così, spesso, il paziente esce dallo studio medico con tutta l’ansia con cui era arrivato. Tutt’al più con qualche richiesta di esami specialistici.
Dialogo difficile. Quando fallisce, le conseguenze sono pesanti: denaro speso e angoscia provata per passare da uno specialista all`altro; un esame e poi un altro, fra incertezza, timore, e dolore: quello che nasce dal non essere accolti, anche nelle proprie lacune culturali, anche nella propria legittima ansia.
La scelta delle parole influenza sempre la relazione fra due interlocutori.
Ora le preleviamo il siero per poi coltivare i suoi linfociti e dare immunizzazione passiva agli altri esposti al contagio.
C’è da chiedersi: ma il medico che si esprime in questo modo si capisce quando parla?
Non sorprende che a volte i pazienti sviluppino una certa sfiducia nei suoi confronti. Non per cattiveria o per cattiva volontà: per cattiva comunicazione.
Anche in Italia negli ultimi anni sono enormemente aumentate le denunce e le richieste di risarcimento nei confronti dei medici. Uno studio dell’Ania, l’associazione nazionale delle compagnie assicuratrici, attesta intorno al 150% l’aumento di denunce per responsabilità professionale dal 1994 al 2002 . Lo stesso studio individua come principale causa di questo incremento non tanto l’errore della diagnosi, quanto una comunicazione medico-paziente inefficace.
Con quanta cura il medico spiega rischi e benefici di una terapia? Quanto si rende comprensibile dai suoi pazienti?
Lost in translation
Se medico e paziente continuano a essere stranieri a colloquio, pur condividendo lo stesso registro linguistico, le prime riflessioni devono partire da lì, dall’uso del linguaggio.
La scelta delle parole, infatti, può influenzare le decisioni: un paziente può prendere decisioni diverse se il medico gli prospetta un 60 per cento di fallimento o un 40 per cento di buon esito di una terapia. Oppure creare confusione, se le parole sono usate con connotazioni differenti: basti pensare che un risultato “positivo” in medicina è quasi sempre una brutta notizia.
Fino a qualche tempo fa davanti alla cassa di un importante ospedale romano era appeso un cartello che recitava:
Si prega di munirsi di moneta divisionale.
Certo, con un po’ di intuito arriviamo a capire che i cassieri ci stanno chiedendo di preparare gli spiccioli, ma se ci troviamo in coda davanti a quella cassa, e noi o qualcuno dei nostri cari si deve sottoporre a esami clinici, con il timore di cattive notizie, perché non tenerne conto?
Un altro cartello, sulle pareti dell’ospedale di Cremona, dice:
In caso di disservizio o di inconvenienti nella fruizione delle prestazioni offerte da questa azienda, il cittadino può rivolgersi direttamente al personale per le soluzioni immediate (ove possibile) o esporre le proprie rimostranze mediante la compilazione dell’apposita scheda prestampata predisposta per la compilazione dei reclami. In tal caso l’azienda si impegna a verificare i fatti ed a fornire i dovuti chiarimenti.
Abbiamo davvero la sensazione che all’azienda che offre le prestazioni importi delle rimostranze del cittadino? Verificherà quell’azienda i fatti? E fornirà chiarimenti?
La sensazione che resta addosso al destinatario di quei messaggi è di distacco. Di lontananza. Di tentativi di confusione e di fuga.
Tecnicismi specifici e tecnicismi collaterali
Ogni lingua settoriale ha le proprie espressioni tecniche. Niente di male. Attraverso un codice condiviso, gli specialisti comunicano fra loro in modo efficace, identificando concetti precisi e immediatamente riconoscibili con espressioni incomprensibili agli esterni.
Avviene in tutti i settori: i giuristi parlano di purgazione della mora, i teologi di dulia e di latria, i linguisti di denotazione e connotazione. Sono i cosiddetti “tecnicismi specifici”: parole che costituiscono il lessico dei linguaggi settoriali e che rimandano a una determinata sfera specialistica. Il loro uso è stato spesso additato come responsabile della cattiva comunicazione dei medici con i loro pazienti. Non sempre a ragione.
I tecnicismi specifici hanno questo vantaggio: identificano un concetto in modo preciso, limitano la possibilità di fraintendimento ed evitano lunghi giri di parole.
Pensiamo all’informatica: con la diffusione dei computer, upload, underscore, back up sono diventate espressioni di uso comune, anche fuori dai contesti informatici.
Una volta spiegata l’espressione tecnica, è facile orientarsi nel discorso: la purgazione della mora è l’eliminazione degli effetti creati da un pagamento effettuato in ritardo (3 parole anziché 10); latria e dulia sono termini teologici che in ambito cristiano si riferiscono ai culti riservati rispettivamente a Dio e ai santi (2 parole anziché 8);denotazione e connotazione indicano i due grandi stili del linguaggio, quello descrittivo e quello metaforico (2 parole anziché 11).
Avviene lo stesso anche in ambito medico: chi ha avuto qualche problema al fegato saprà che cosa sono le transaminasi, e gli appassionati di calcio imparano presto che cos’è una meniscopatia o l’apofisi ulnare, anche senza avere approfondite conoscenze di medicina.
Una lingua speciale, però, non è fatta solo di vocaboli relativi a una determinata attività. Ci sono moltissime espressioni che caratterizzano i linguaggi settoriali che non rispondono all’esigenza di riferirsi in modo univoco a un concetto, ma ad altro: sono i “tecnicismi collaterali”. Per usare la definizione di Luca Serianni, sono
scelte linguistiche che rispondono al desiderio, o all’opportunità, di usare un registro elevato, distinto dal linguaggio comune .
Scelte, appunto. Mentre i tecnicismi specifici si riferiscono in modo univoco a concetti precisi, si possono spiegare e possono essere noti anche al profano che sia coinvolto in un problema di pertinenza settoriale – come nel caso delle transaminasi -, i “tecnicismi collaterali” svolgono
una funzione simile a quella che in anatomia il tessuto connettivo svolge rispetto ai singoli organi: una funzione di riempimento degli interstizi .
In medicina possono riferirsi a nomi generici, vaghi come fatto o fenomeno (fenomeno ischemico); a parole di registro più elevato rispetto a quello comune: chi sono i pazienti pediatrici se non i bambini? In qualche caso le espressioni vengono usate in modo ambiguo dal punto di vista semantico. Per esempio, nella lingua del paziente “positivo” rimanda a “cose belle”: in medicina, come si è visto, normalmente non è un buona notizia. Oppure “sofferenza epatica”: “sofferenza” per il paziente è “dolore”; ma la sofferenza epatica non dà necessariamente dolore fisico paziente, che potrebbe essere ammalato senza avere sintomi.
Sono le parti del discorso che danno il sapore di “medichese” al linguaggio. E possono essere sostituite senza che l’esattezza scientifica ne risenta:
Il paziente dice: |
Il medico traduce: |
Avere male |
Accusare un dolore |
Valutabile |
Apprezzabile |
Insieme |
In associazione con |
Evidente |
Conclamato |
Morte |
Esito fatale |
Aspirina C per la febbre e l’influenza |
Aspirina C per la terapia sintomatica degli stati febbrili e delle sindromi influenzali |
Sono proprio queste le espressioni tipiche dei linguaggi di casta, perché limitate alla ristretta cerchia di specialisti che mettono in soggezione il paziente meno competente. E che lo tengono a distanza.
Tecnica ed etica
Ma il medico ha il dovere etico di affiancare il proprio paziente. Essere in grado di comunicare nel suo linguaggio è il primo passo. Non si tratta di un generico “essere gentili”, ma di una competenza professionale che influisce sul buon esito della terapia.
Si pensi alle malattie croniche: accade spessissimo che i malati siano il primo vero intralcio alla terapia assegnata dal medico. Il motivo? Non capiscono le indicazioni del medico, e così smettono di seguirle. Per curare efficacemente un malato cronico non basta limitarsi alla corretta interpretazione dei sintomi clinici della malattia e alla prescrizione di farmaci. Con il paziente il medico deve stipulare una vera e propria alleanza terapeutica, per insegnare, trasmettere, negoziare; per motivarlo e accompagnarlo in tutto il percorso della malattia. Il medico, insomma, deve imparare a riconoscere le emozioni osservate nel paziente per impostare un consulto motivazionale.
Gli ostacoli alla comunicazione possono essere numerosi: barriere culturali, linguistiche, emotive, scarsa motivazione, pregiudizi, difficoltà organizzative, economiche e logistiche, ma anche una capacità di ascolto e di relazione insufficienti.
Il medico oggi è chiamato a dotarsi di una vera e propria competenza professionale, per stabilire una relazione comunicativa e cooperativa efficace con il malato e la sua famiglia.
La fiducia, fattore determinante nel processo di cura e guarigione, si comincia a costruire da lì: dalla condivisione della stessa lingua. Ogni relazione, del resto, si fonda sulla comunicazione, contenuto e forma. Se le due lingue restano troppo diverse, per quanto bendisposti si sia, agli occhi del paziente, alle sue orecchie, al suo cuore, il medico apparirà sempre uno straniero.
- On 29 Ottobre 2012