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Un momento, per favore

Capirsi oltre il linguaggio

di Alessandra Cosso

“Chi ha la salute, ha la speranza. E chi ha la speranza, ha tutto.”
Proverbio arabo

A volte basta pochissimo: un gesto, uno sguardo e nasce l’incomprensione. Specie nella comunicazione interculturale. Ecco perché in una società che va velocemente verso la multietnicità è importante imparare a confrontarsi senza pre-giudizi e pre-concetti. Rimanendo aperti alla diversità.

La questione del multilinguismo in medicina è molto attuale: sono sempre più gli immigrati, spesso non in regola, che si rivolgono ai pronto soccorsi degli ospedali. Arrivano per qualsiasi disturbo, dal mal di pancia al mal di denti. Spesso non conoscono bene l`italiano e non hanno l`abitudine al nostro sistema sanitario perché vengono da paesi in cui le cose funzionano diversamente (o proprio non funzionano, nel senso che non esiste un servizio pubblico). 
Gli infermieri che sono lì per accoglierli, definire di che tipo di cure hanno bisogno e con quale urgenza, si trovano in difficoltà: spesso non riescono neanche a farsi dare i dati anagrafici corretti. E più le culture sono distanti, più sono pesanti le difficoltà nella comunicazione. Questo diventa molto evidente quando si confrontano i modi di dire, i proverbi, le forme idiomatiche di lingue diverse. Ancora di più quando entrano in gioco la mimica, la prossemica (cioè l’utilizzo dello spazio e della distanza fisica nella comunicazione), l’uso dello sguardo e così via. 
Lo straniero infatti deve sintonizzare i propri

schemi di attribuzione di importanza con quelli dei propri interlocutori attraverso un continuo passaggio mentale da un sistema (…) familiare a quello in cui, attualmente, cerca di districarsi procedendo per approssimazioni successive. (1)

In alcuni ospedali, per fare fronte alla crescente presenza di immigrati che non parlano italiano, gli infermieri si sono muniti di alcuni fogli con tutte le frasi più utili per l`accoglienza del malato in varie lingue. Per poterle pronunciare correttamente sono state riportate sotto forma di fonémi, in caratteri latini. In altri ospedali – soprattutto all`estero – è stata introdotta una comunicazione scritta friendly per gli stranieri, con le informazioni di base in varie lingue, o ancora una rete di traduttori contattabili per telefono dal personale: due semplici interventi che possono abbassare di molto l`ansia e il senso di estraneità del paziente straniero e facilitare la comunicazione con il personale sanitario.
Il breve racconto che segue trae spunto da alcuni episodi di vita vissuta riferiti da immigrati e da infermieri.


È quasi mezzanotte. La donna arriva all’accettazione del pronto soccorso sorretta da altre due che la trascinano mentre urla per il dolore. Le grida sono acutissime, davvero impressionanti, anche per un primo parto. 

Sì, perché la signora è chiaramente incinta e a giudicare dalle dimensioni della pancia le urla sono dovute alle contrazioni del travaglio. Cammina a fatica, appoggiandosi alle braccia delle sue accompagnatrici. A ogni passo, un lamento, un gemito, un urlo. Le grida mettono in allarme il personale dell’ospedale che teme che la donna sia già molto vicina al momento culminante. Le infermiere del triage (2) si attivano subito e fanno portare una sedia a rotelle, seguono la procedura di emergenza e la accompagnano in sala parto. Qui con una visita le ostetriche scoprono che manca ancora parecchio tempo alla fase espulsiva. Tempo durante il quale la donna continua a esprimere a modo suo il proprio “travaglio” seminando il panico tra i mariti che, nelle salette vicine, assistono le loro donne più silenziose e composte. (3)
Nel frattempo l’infermiera del pronto soccorso chiede a una delle donne che accompagnano la futura madre di aiutarla e di riempire i moduli con i suoi dati e con le informazioni mediche che potrebbero essere necessarie al personale medico e alle ostetriche.
«Dati anagrafici, per favore». Silenzio, un sorriso un po’ sdentato, uno sguardo del tutto vacuo come di chi non ha idea di che cosa si stia parlando.
«Per favore, il nome, N-O-M-E della signora. Mi capisce?»

Silenzio.

Alla collega: «Questa non capisce niente». 
Poi di nuovo al di là del bancone: «Almeno mi dica se la signora ha avuto qualche problema durante la gravidanza: toxo? Placenta previa? Perdite ematiche? Dove sono gli esami? Ha fatto la morfologica? (4) Non mi guardi così: c’è qualcuno che parla italiano che mi può dare informazioni? Non capisce: dobbiamo sapere se ci sono problemi! È per la salute della mamma e del bambino…» Il tutto viene comunicato con un tono condiscendente che si fa però via via partecipe, quasi accorato…
A questo punto il sorriso diventa un po’ meno esitante, lo sguardo si fa più sicuro. La donna annuisce e fa un gesto con la mano destra: col palmo verso l’alto e le dita unite. Lo stesso gesto cui i non napoletani sono stati introdotti dai film di Totò, e che di solito è accompagnato da un poco cortese «Che vuoi?».
L’infermiera non ci vede più e incomincia a inveire contro gli extracomunitari che approfittano del servizio sanitario pubblico senza pagare le tasse. «Ma come, io cerco di aiutarla e questa mi fa i gestacci! Chi me lo fa fare di stare qui a perder tempo!» 
Ma sta già accorrendo l’altra donna che aveva accompagnato la “gravidanza a termine”. (5) Adesso è tranquilla perché sua sorella è in buone mani. Parlando in un dialetto egiziano dice a sua madre di aiutare Yasmine perché soffre e chiede della mamma. 
Chissà perché, nonostante la lingua, la conversazione risulta immediatamente comprensibile all’infermiera. (6)
Che ci riprova con la seconda donna ad avere i dati anagrafici per la registrazione. La risposta arriva in un italiano un po’ incespicante, ma del tutto comprensibile: «Sì certo ora ti dico di mia sorella… sai mia madre non ha imparato la lingua, non capisce. Ma io sì adesso ti dico».
«Sa, non esser capita va bene, ma essere presa in giro…». 
L’infermiera è così sollevata che non rinuncia al piccolo sfogo e quasi rimprovera la figlia per la cattiva educazione della madre. 
L’egiziana si mostra stupita e chiede all’infermiera di ripetere il gesto.
Adesso è lei sollevata. E spiega: la madre non era maleducata, al contrario, voleva essere cortese. Quel gesto in Egitto significa «Puoi aspettare un momento, per favore?» (7)


 

(1) Fabio Quassoli, Riconoscersi – differenze culturali e pratiche comunicative, Raffaello Cortina Editore, 2006. Quassoli è docente di sociologia dei processi culturali all’università di Milano-Bicocca. Si occupa di comunicazione interculturale, sociologia dell’immigrazione e produzione sociale della devianza.

(2) Il triage è la prima accoglienza del pronto soccorso: qui gli infermieri devono comprendere quale sia il problema del paziente e registrarlo.

(3) Ancora prima di quella linguistica, allontana la differenza culturale. Sia la comunicazione non verbale sia quella paraverbale ne sono molto influenzate e la possibilità di capirsi diminuisce con l’aumentare della distanza tra culture. 
Una delle caratteristiche della cultura araba – egiziana in particolare – è la drammatizzazione del dolore. La necessità cioè di rappresentarne la percezione in modo molto accentuato, molto evidente. Questo modo di esprimersi permette uno sfogo immediato, se pure “rituale” dell’emozione. Tuttavia quando l’interlocutore appartiene a una cultura diversa, magari più pudica nell’esprimere il proprio disagio emotivo (e qui siamo in Italia, immaginiamo che cosa può accadere in Svezia o in Germania) la comunicazione risulta falsata.

(4) Da notare come il ricorso all’utilizzo della terminologia medica coincida con il momento in cui l’infermiera perde la pazienza. Il personale sanitario è consapevole della distanza che il “medichese” crea, soprattutto con persone di poca cultura o, come qui, di lingua diversa. Tuttavia lo utilizza; in questo caso lo fa, viene da pensare, come una difesa nei confronti del senso di inutilità del proprio ruolo, riscontrando l’impossibilità di una comunicazione efficace.

(5) Altro classico meccanismo difensivo: la spersonalizzazione del paziente, che smette di essere persona e diventa malattia, caso, sintomo.

(6) Quando il contesto comunicativo diventa più familiare (le due donne si dedicano alle necessità e ai bisogni della partoriente) l’empatia risulta più semplice da attivare e la comprensione più facile da raggiungere anche per l’infermiera. È “l’affermarsi (…) di un atteggiamento ‘etnorelativo’ rispetto a uno ‘etnocentrico’. (…) Tale processo di maturazione prevede due regole (…) La prima regola insiste sulla simpatia (…) sul principio “fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”. La seconda regola, moralmente più elevata, insiste sull’empatia, si basa sull’assunto relativo all’unicità di ogni essere umano e ci invita a divenire participi dell’esperienza – diversa – dell’altro, seguendo il principio del “fai agli altri ciò che loro farebbero a se stessi”. In Fabio Quassoli, op.cit.

(7)  Per dirla con Alfred Korzybski, la mappa non è il territorio. Cioè i punti di riferimento mentali che utilizziamo nella nostra percezione della realtà e dell’altro sono diversi per ciascuno di noi. Conoscere bene una persona e la sua cultura significa conoscere almeno parte della sua mappa mentale, del modo in cui si rapporta con il mondo. E se non conosciamo le coordinate della mappa del nostro interlocutore, il fraintendimento è in agguato. 

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