Quattro storie di donne
di Pierluigi Voi
Un sostituto che impartisce lezioni sul contagio sessuale; un chirurgo che svilisce la mastectomia a un fatto “di carrozzeria”; un dentista che opera in un teatro dell’assurdo e un medico curato da un veterinario.
1) Amore e terrore
Guardo giù dalla finestra le piante verdi, il traffico scarso, due uomini con la giacca sulla spalla. Solo lo scorso inverno scherzavo con una collega anziana perché mi aiutasse a trovare il mio principe azzurro e adesso pregusto la cenetta che lui mi vuole preparare per questa sera. Tenero gatto!…
«Signorina…» – mi sorprende la segretaria – «il sostituto la può ricevere».
Avevo dimenticato le ferie, cavolo… Cerco di togliermi la smorfia dalla bocca prima di entrare nello studio. Il sostituto è una signora che sprizza simpatia come la prof di matematica delle superiori: capelli a caschetto, occhialetti con la catena, sguardo fisso sulle pagine di un`agenda.
«Lei è?… Viene per?… Mi dica! ». Spara a raffica dal naso le domande acide senza darmi il tempo di rispondere. Mi siedo e cerco di mostrare un sorriso gioviale, mentre mi presento e comincio a spiegarle che il dottor tale, il titolare, mi conosce si può dire da quando ero bambina e già qualche anno fa, quando ero col mio ex, mi aveva prescritto la pillola, naturalmente dopo avermi fatto fare gli esami del sangue, e durante la visita precedente, il mese scorso, mi ha detto di ripeterli, perché adesso ho una storia importante nella quale credo molto, e…
Lei si vede che mi ascolta solo perché ha le orecchie. Punta dritto alla busta del laboratorio: pinza con le unghie i referti, come faceva la Bianchi con i nostri compiti in classe, come se potesse prendersi il tifo. «Sì… Può andare… Ma lei… » – rallenta – «… signorina… si rende conto dei rischi che corre a non proteggersi con il preservativo?». Sillaba l`ultima parola e mi guarda finalmente fisso negli occhi. La preferivo prima.
Di botto attacca una tirata sulle malattie a trasmissione sessuale, le probabilità di contagio, le conseguenze devastanti sul corpo e la mente. Resto interdetta, poi cerco di balbettare che non ho l`abitudine di prendere il primo che passa e che il mio ragazzo è da anni un donatore dell`Avis, praticamente garantito a norma di legge. Niente: la prof continua la sua lezione con esempi, casi conclamati, statistiche nazionali e planetarie che mettono angoscia.
Improvvisamente si blocca: si è esaurita? Mi dà per persa? Scarabocchia nervosamente il ricettario, mi sbatte davanti il foglietto e mentre riprende a scrivere la sua agenda, conclude minacciosa: «Io l`ho avvisata…».
Credo voglia dire che la visita è finita. Mormoro un saluto ed esco. (1)
L`afa che sale dall`asfalto mi sembra aria di montagna mentre cerco di riprendermi dall`affanno. Davanti alla farmacia aspetto qualche minuto per evitare che i sudori freddi mi si gelino addosso con l`aria condizionata: ci mancherebbe la polmonite, altro che Hiv!
Dopo l`estate torno dal mio medico per raccontargli del suo bravo sostituto terrorista. Non sembra stupito, anzi mi confida di aver ricevuto altre lamentele e di averne già parlato con la collega stessa, con scarsi risultati, si capisce.
«Mi permetta una domanda inutile.» – gli dico – «Perché noi, comuni impiegati delle assicurazioni, rischiamo di essere buttati sul marciapiede se un cliente presenta un reclamo sul nostro comportamento?».(2)
2) Carlotta dai capelli crespi
Vedo ancora la scena. Il chirurgo conclude la visita che precede un intervento di mastectomia su una paziente che potrebbe essere quasi la mia sorella minore: una bella ragazza di ventidue anni che fa stringere il cuore a vederla qui dentro. Si è contenuta finora con coraggio, ma quando il medico afferma «Bene! Allora interveniamo», comincia a piangere sconsolata come una condannata a morte. (3)
Cerco di attrarre la sua attenzione avvicinandomi al letto, ma il chirurgo pare in dovere di rassicurarla con la sua competenza professionale: in piedi in mezzo alla camera, le mani nelle tasche del camice, comincia a spiegare le ragioni dell`intervento, con tutti gli aspetti tecnici, fino alla fase postoperatoria. Una perfetta lezione accademica, ma ogni parola che dovrebbe rassicurare la ragazza sembra farla precipitare in una disperazione sempre più profonda. (4)
Le metto in mano un fazzoletto di carta e ottengo un breve sguardo di ringraziamento. Ne approfitto per aiutarla a coprirsi. (5)
Forse incoraggiato dalla pausa fra i singhiozzi, il medico riprende disinvolto: «Su, avanti, non si preoccupi, signorina.(6) In fondo è solo una questione di carrozzeria!». (7)
Sono infermiera professionale da diversi anni, ma lo guardo per un lungo momento inebetita, mentre la paziente si ripiega su se stessa, completamente sconvolta. Vorrei essere altrove, piuttosto sprofondare nel pavimento. Davvero non so più cosa fare. La collega mi fa cenno di voler intervenire con un`iniezione di calmante. Per fortuna, dietro a lei, esce dalla camera anche il medico.
Rimango sola con la ragazza e in un lampo cerco di immaginare che cosa farei a mia sorella. (8) Lascio perdere la prassi professionale e mi appoggio al letto, quasi al suo fianco, la testa leggermente sopra la sua; con la punta delle dita le allontano delicatamente i capelli dalla fronte e ripeto piano il suo nome. Abbastanza presto la ragazza alza lo sguardo verso di me e i singhiozzi si diradano un poco. Le sorrido. «Va bene… Va tutto bene, Carlotta… Tranquilla… È passato…» – le ripeto mentre continuo a cercare il suo sguardo. Sento che il respiro si distende. Le avvicino il bicchiere senza toccarle le labbra: lei lo prende e beve un sorso. Lascio che le sue mani possano toccare le mie: ne stringe una. Le guardo sorridendo i capelli e dico, quasi tra me e me: “Quanto darei per cambiare i miei spaghetti con questi qui, così increspati! Belli… Si vede che sono naturali”. In un attimo riaffiora la sua dignità femminile: «Hai voglia… Non so più cosa fare per lisciarli… Facciamo il cambio!». (9)
M`accorgo che la collega si è fermata sulla porta: ha capito che adesso non occorre altro.
Conservo ancora oggi, vicino al computer, la foto di Carlotta che sorride in costume da bagno, i capelli ancora più increspati dall`acqua di mare.
3) Il teatro di Annalisa
All`uscita, ricordo al mio collega: «Forse domani resterò a casa, se mi darà dei punti”. Si ricordava benissimo, infatti mi risponde: «Sei proprio sicura di fartelo togliere?». «Che devo fare? Se vai dal medico, o ti fidi, o te ne vai. Sono settimane che mi trivella la bocca senza risultato. E adesso dice che è impossibile ripulire bene la radice. Che devo fare!».
Alle tre e venti sono già nella sala di aspetto che m’illudo di distrarmi con una rivista per donne deficienti. Con dodici minuti buoni di ritardo l`infermiera m`invita ad accomodarmi sulla poltrona infame, in attesa che la dottoressa concluda la tortura nello studio accanto. Chissà quale presentimento mi suggerisce di tenermi accanto la borsetta.
«Intanto noi, cara, incominciamo a prepararci» – gorgheggia goffa la madama. «Io sono pronta da un pezzo» – le ribatto secca. Mi domando perché si senta in diritto di usare il plurale, quando sono io sola che mi sottopongo alle tenaglie. Non le sembra vero di giocare al dottore: «Apra, che vediamo, cara». Apro, sì, non prima di averle dedicato un ghigno eloquente. Mi guarda in bocca maldestra come farebbero alle Capannelle con una cavalla: tutta grazia femminile! Guarda e riguarda, con lampada e specchietto. Infine guarda me: «Cara, è proprio sicura di toglierlo?».
Sollevo la testa e la fisso negli occhi: «Scusi, ma non c`era anche lei giovedì scorso?». C`era anche lei, eccome, infermiera beota, quando la dentista si è arresa all`ultimo tentativo e ha incominciato a teorizzare che in questi casi, non c`è dubbio, “ci” resta solo l`estrazione. Ha speso un intero vocabolario medico per convincermi. Infatti sono tornata a sedermi qui, incauta che sono! (10)
Finalmente mi guarda in bocca la dentista. Al sorriso di circostanza ha rinunciato subito dopo aver incrociato il mio sguardo. «Allora… Sì, vediamo, professoressa…» – scandisce compita. Guarda e riguarda, con lampada e specchietto. Infine guarda me: «Che dice, professoressa, vuole proprio che lo togliamo?».
Sollevo la testa per guardare fuori dalla porta: cerco il regista di questo teatro dell`assurdo. Ahimè la porta è chiusa e io sono chiusa nella stanza con queste due dissennate.
Invoco il deus ex machina. Potenza della mente, squilla il cellulare! La dentista si scusa e si allontana.
Dato che siamo in scena, recito anch`io la mia parte: balzo a sedere e frugo nervosamente nella borsa. (Con tono scocciato): «Ah, mi pareva… Sentivo vibrare… Dannato affare…». (Lo prendo): «Questi cellulari! Sembra che si mettano d`accordo!». (Corrucciata, fingendo di guardare il messaggio): «Senti questo!… Mamma, il motorino non va. Vieni a prendermi a casa di Giorgio. Ti aspetto». (Con aria sconsolata, verso l`infermiera): «Ecco! Lo vede come sono i figli? Se ne vanno in giro e poi chiamano la mamma…».
L`infermiera giunge le mani e sorride con aria di compatimento. Per me è meglio di un applauso.
Come un sipario, la porta dell`ascensore si chiude. «Annalisa, batti un cinque!» – mi dico come fanno i miei allievi, mentre calco la mano contro lo specchio della cabina.
Qualche giorno dopo, al telefono, dico all`infermiera che il dente ha smesso di farmi male, sicuramente per effetto delle ripetute cure che la dottoressa mi ha prodigato; mi farò viva casomai, speriamo non sia necessario; grazie di tutto e saluti.
È vero che il male è passato: il dentista del mio collega è riuscito a recuperare il dente, anche se con difficoltà e con molti interrogativi irrisolti sul precedente trattamento. Mi è simpatico e forse un giorno converseremo di Pirandello e della mia parte in questo gioco.
4) Anche per gli asini c`è un veterinario
Mi allontano dal corpo inerte dell`anziano, abbasso il fonendoscopio, guardo entrambi e annuisco. I suoi figli, un uomo e una donna molto maggiori di me, persone pacate e gentili rimaste in attesa della mia conferma, sembrano apprezzare la sobrietà di questa comunicazione muta. Restiamo in silenzio. La mia parola in realtà l`ho bloccata io stessa in gola, per paura che esca fra i singhiozzi. Serrare le labbra, respirare ritmicamente, concentrarsi sulla prassi dovuta, poi guardare altrove: una tecnica che ho perfezionato su me stessa, perché un bravo medico non deve tradire emozioni, tanto meno in questi casi. Nella mia famiglia di medici l`ho sentito ripetere da sempre.
Che cosa sia poi successo quella volta, non so bene… Ho impiegato del tempo per ricostruirlo, perché è stata una questione di istanti.
Il figlio dell`anziano mi rivolge uno sguardo intenso, di riconoscenza e direi di comprensione: forse ha colto qualcosa del mio stato d`animo. Di solito i congiunti sono incentrati su se stessi, sul proprio dolore, e io sono sorpresa da questo segnale imprevisto. Forse un po` mi spavento e in qualche modo lo do a vedere. La donna, fino a quel momento quieta nonostante le lacrime, spalanca gli occhi verso di me e attacca a singhiozzare, e io dietro in coro, come i neonati nella nursery! Lui, commosso, ci abbraccia tutt`e due, e io avanti, a fontana, sulla sua spalla… Finalmente riprendo fiato e riesco a borbottare: «Mi spiace… Mi scusi… Sono un`asina!». Lui mi guarda, mi sorride, quasi divertito: «Stia tranquilla… Sono veterinario!». Meno male che nessuno entra, perché, a parte la filosofia di famiglia, è fuori luogo ridere nella stanza di un morto… (12)
Da allora ho cominciato a dire a me stessa che, anche quando come medico applico la prassi professionale, posso continuare a dialogare con le mie emozioni di donna. Sono convinta che la mia competenza ne abbia tratto vantaggio. Spesso, dopo che ho visto morire l`ennesima persona, se per la strada incontro qualcuno, i negozianti, gli altri genitori fuori di scuola mi leggono in viso quello che da poco è successo: mi raccomandano di riposare e poi restano un po` pensierosi. Mi sembra bello che noi medici ospedalieri che, si può dire, con la morte conviviamo, siamo capaci di ricordare talvolta agli altri, in silenzio, che la morte fa parte della nostra vita. (13)
Per me è sempre divertente ricordare che, sotto questo aspetto, sono stata curata da un veterinario!
Il corso: Il linguaggio della salute
(1) La mancanza di cura nella relazione compromette la comunicazione e la fiducia stessa verso il medico: l`effetto sarebbe controproducente se la paziente avesse davvero bisogno di un`azione preventiva. Sul piano del linguaggio non verbale sono significativi la mancanza di saluto, l`atteggiamento distratto, la noncuranza per il racconto della paziente, l`esposizione cattedratica. Sul piano paraverbale: il tono di voce, le domande incalzanti, l`enfasi data ad alcune parole, il tono perentorio e assillante. Poiché in genere le nuove emozioni si associano a quelle analoghe del passato, il comportamento del medico suscita il ricordo sgradito dell`insegnante e deprime la precedente euforia.
(2) L`espressione “il mio medico” dice che la paziente ha fiducia in lui e nell`efficacia del reclamo che gli presenta.
(3) In questo caso che richiederebbe maggiore cautela, l`interiezione “bene!” è offensiva. Tutto dovrebbe poggiare su una relazione di empatia e di fiducia: la visita e il colloquio precedenti l`intervento potrebbero essere introdotti dall`ascolto della paziente e da gesti e parole che confermino l`intenzione di prendersi cura di lei. La paziente sarebbe così meglio disposta verso l`esposizione del medico.
(4) Il discorso razionale del medico non è in sintonia con lo stato emotivo della paziente ed entrambi sono a disagio: la paziente non ha testa per capire e il medico ha la sensazione di parlare al muro. Il comportamento dottorale conferma sul piano fisico la distanza mentale fra i due.
(5) Il rivestire con delicatezza una nudità richiama il gesto elementare di cura e di protezione del bambino piccolo.
(6) Il tono paternalistico accentua la distanza fra l`uomo maturo e la giovane donna. La formula negativa richiama alla coscienza lo stato di preoccupazione: sono preferibili espressioni positive simili a quelle usate dall`infermiera.
(7) Questa battuta che vorrebbe sdrammatizzare la situazione nasconde vari presupposti negativi: a) minimizzazione dello stato emotivo della paziente e del suo dramma, sia perché è in gioco un attributo femminile, sia perché una questione estetica è importante per ogni persona; b) negazione del problema che motiva l`intervento: se fosse vero che la questione è solo “di carrozzeria”, cioè esteriore, la mastectomia non sarebbe necessaria; c) sospetto di disimpegno professionale: il chirurgo che minimizza fa temere un comportamento superficiale in sala operatoria; d) equivalenza che mortifica l`identità della persona: donna = automobile; e) equivalenza che implica una concezione meccanicistica: terapia = riparazione di un guasto meccanico. Questi presupposti impliciti negano il fondamentale principio di cura verso la persona, che è la premessa di ogni terapia e, più in generale, di ogni positiva relazione umana.
(8) Una buona relazione implica il riconoscimento dell`altro come simile, cioè differente ed equivalente a sé.
(9) Il porsi al fianco della persona come per accompagnarla, il pronunciarne il nome, l`invito ad alzare lo sguardo (che favorisce la dissociazione dallo stato di disagio), il contatto fisico delicato, le parole e il tono rassicuranti sono messaggi che utilizzano tutti i livelli linguistici in maniera coerente ed efficace. L`umorismo a questo punto può essere condiviso.
(10) La domanda del collega risveglia il dubbio che la donna porta con sé fin dall’inizio: le parole «o ti fidi, o te ne vai» rivelano una diffidenza che motiva poi l`irascibilità verso l`infermiera e la precauzione di tenere con sé il cellulare.
(11) La situazione appare teatrale alla paziente fin dalle precedenti sedute: la dentista cerca di mascherare una difficoltà professionale ostentando una sicurezza che lei stessa contraddice con la sua domanda e che è smentita dalla successiva diagnosi (vedi a questo proposito nel capitolo 16.1, Di qua e di là della barricata, di Manuela Meriggi, il paragrafo In ospedale come parente). La paziente sta al gioco della finzione, sia per sottrarsi all`intervento che ormai è certa di non voler subire, sia per troncare la relazione con la telefonata di apparente cortesia.
(12) Questa situazione emotiva intensa e condivisa riesce a incrinare un presupposto mentale legato ai modelli educativi e confermato dall`espressione “sono un`asina”, che era probabilmente in bocca ai genitori.
(13) La frase “ho cominciato a dire a me stessa” dice che nella persona s`instaura una nuova idea di sé. L`affermazione che il dialogo è possibile ristabilisce l`armonia fra pensiero ed emozioni e migliora la sintonia con gli altri. La disponibilità a comunicare supera anche la diffusa tendenza a censurare la morte come evento estraneo alla vita.
- On 21 Settembre 2012