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La vita, la morte: ad altezza di bambino

Un articolo del professor Sandro Spinsanti, tratto dalla rivista Janus.

di Sandro Spinsanti

Un’avvertenza preliminare per chi prenda in mano La vita davanti a sé, di Émile Ajar, pubblicato nel 1975: tutto è falso in questo romanzo. Eppure tutto è più vero del vero. Soprattutto a rileggerlo oggi, a più di trent’anni dalla sua pubblicazione (in italiano è disponibile nelle edizioni Neri Pozza, traduzione di Giovanni Bogliolo: un vero tour de force, considerato il linguaggio unico e irripetibile dell’originale).

Partiamo dalla verità sull’autore. 
Ajar era lo pseudonimo di Paul Pavlovich; ma Pavlovich, a sua volta, copriva l’identità del vero autore, lo scrittore Romain Gary, zio di Pavlovich. Gary era uno scrittore affermato, anche se disprezzato da una certa parte della critica come reazionario. Aveva vinto il premio Goncourt nel 1956 con il romanzo Le radici del cielo. 
Grazie al trucco della falsa identità di Ajar, potè vincere una seconda volta il Goncourt nel 1975 con La vita davanti a sé, cui arrise un successo strepitoso. 
Nel 1980 Gary si suicidò. Pochi mesi dopo con un opuscolo postumo “uccideva” Emile Ajar e Gary risuscitava dalle ceneri. “Mi sono divertito molto, arrivederci e grazie”: era il suo ultimo sberleffo, rivolto soprattutto ai critici che l’avevano snobbato.

Da premesse di questo genere non possiamo attenderci che sviluppi sorprendenti. 

La storia è apparentemente semplice. 
Protagonista è un ragazzino che vive alla periferia di Parigi, quella Belleville che molti anni dopo ci sarà resa familiare dai romanzi di Daniel Pennac. In quel brodo multiculturale di immigrati e marginali, tutti impegnati nella difficile arte della sopravvivenza, si muove a suo agio Momò. È stato adottato affettivamente da Madame Rosa, una vecchia prostituta ebrea, reduce da Auschwitz, che ha aperto una specie di pensione per “bambini nati di traverso”, ovvero un asilo nido in cui le prostitute depositano i loro marmocchi di ogni razza e colore, per il periodo in cui devono lavorare e non possono occuparsi di loro. 
Momò si chiama in realtà Mohammed ed è musulmano (ma non sapeva di esserlo, finchè non è andato a scuola e ha cominciato a risuonare nelle sue orecchie l’insulto di “sporco arabo”).
Il romanzo parla con la sua voce. Ed è questo uno dei principali godimenti per il lettore: Gary dà prova di una vera genialità linguistica, inventando uno stile nuovo, nel genere parlato, che produce un fuoco d’artificio di formule buffe, incongrue, lapidarie. Momò fa scoppiare le parole utilizzate nel loro significato corrente. La sua opera sovversiva comincia con il linguaggio, per indurci a guardare la realtà da una prospettiva rovesciata. Perché, appunto, nulla è come sembra. 

Cominciamo dal titolo del romanzo. Avere “la vita davanti a sé” suona come una promessa. Per Momò è invece una minaccia:

“Ho sempre notato che i vecchi dicono: ‘Sei giovane, hai tutta la vita davanti’, con un sorriso buono, come se gli facesse piacere. Sapevo che avevo tutta la vita davanti ma non me ne sarei certo fatto una malattia”.

Gli basta guardare una foto della vecchia Madame Rosa da giovane e confrontarla con quello che è diventata:

“C’è una sua fotografia di quando aveva 15 anni, prima degli stermini dei tedeschi, e non ci potevi credere che ne sarebbe venuta fuori Madame Rosa, quando la guardavi. Ed era la stessa cosa dall’altra parte, era difficile immaginare Madame Rosa a quindici anni. Non c’era nessun rapporto. Madame Rosa a quindici anni aveva una bella capigliatura rossa e un sorriso come se davanti a lei ci fosse un mucchio di cose buone e lei ci stesse andando. Mi veniva mal di pancia a vederla a quindici anni e poi adesso, nel suo stato. La vita l’ha sistemata, come no”.

E’ Madame Rosa l’epicentro del romanzo. L’emozione gira attorno alla vita che lei ha dietro di sé e la morte che ha davanti. Momò fa l’esperienza della vita attraverso lo sfaldamento di Rosa. Per Momò non è vero che la natura fa bene quello che fa”; è convinto che “le leggi della natura fanno così schifo che non dovrebbe nemmeno essere permesso”. La condizione umana è affetta da una disumanità imposta dall’esterno. Ma c’è qualcosa di peggio delle leggi della natura: sono le decisioni prese da coloro che hanno deciso di impedire che le cose seguano il loro corso naturale. I principali imputati sono i medici: “La medicina deve avere l’ultima parola e lottare fino alla fine per impedire che si faccia la volontà di Dio”.

Lasciandoci condurre dal gioco di Gary, siamo pronti ad accettare che il titolo del romanzo sia anch’esso illusorio: non si tratta della vita che ha davanti a sé un ragazzino di dieci anni, ma della morte che incombe su una vecchia, afflitta dagli anni e dalle malattie. 
È questo il vero tema del romanzo: non le miserie di chi si trova a crescere ai margini della società, ma l’universale tragedia della morte. E della tragedia nella tragedia, che è la morte tra le braccia fredde della medicina. Momò è impegnato a impedire che su quella donna che ha sofferto tutto il soffribile venga perpetrata l’ultima ingiustizia e le sia impedito di morire come natura comanda. “Non c’è niente di più schifoso che infilare a forza la vita nella gola della gente che non si può difendere”, proclama Momò. 

Di fronte al declino della vita si profilano due alternative: affidarsi alla natura o consegnarsi alla medicina. Nessuna delle due vie è indolore. 
Momò sa che “i vecchi sono attaccati dalla natura, che sa essere una bella schifosa e li fa crepare a fuoco lento”. Tuttavia Madame Rosa teme soprattutto la seconda scelta e Momò si impegna fino allo spasimo per assecondarla, preservandola dalle ignominie dell’ospedale.
La vecchia è categorica nel suo rifiuto di consegnarsi alla medicina: “Mi fanno sevizie per impedirmi di morire. Non voglio vivere anni in coma per fare onore alla medicina”; “Vogliono farti vivere per forza, all’ospedale, Momò. Ci hanno delle leggi apposta. Sono come le leggi di Norimberga. Ma queste cose non le puoi sapere, sei troppo giovane”. Da parte sua Momò asseconda le fantasie persecutorie della vecchia Rosa. Raccoglie notizie di record mondiali in stato vegetativo – ci sarebbe in America un comatoso che vive una vita vegetativa da 17 anni: un record dovuto ai progressi della medicina… – e si rifiuta di “diventare campione mondiale di vegetali per far piacere alla medicina”.
Al dott. Katz che visita a domicilio Rosa e si sente obbligato a ricoverarla in ospedale Momò fa una proposta: che il dottore la abortisca. Il medico fa fatica a capire il senso di quella parola incongrua. Momò insiste: “abortirla, per impedirle di soffrire”.

“No, mio piccolo Momò, sono cose che non si possono fare. L’eutanasia è severamente punita dalla legge. Siamo in un paese civile, qui. Non sai cosa dici”.
“Altro che se lo so. Sono algerino, lo so cosa dico. Laggiù loro ci hanno il sacro diritto dei popoli di disporre di se stessi. Il sacro diritto dei popoli esiste, sì o no?”
“Certo che esiste. È una cosa bella e importante. Ma non vedo cosa c’entra”.
“C’entra che, se esiste, Madame Rosa ha il sacro diritto dei popoli di disporre di se stessa, come tutti quanti. E se lei vuole farsi abortire è suo diritto”.

A questo punto anche il lettore, come il dott. Katz, ha perso ogni punto di appoggio, linguistico e concettuale. “Aborto” non è la parola giusta per descrivere ciò che si vuol fare per sottrarre una persona giunta alla fine della vita, sia alle indegnità della natura, sia ai tormenti supplementari che possono venire dalla medicina. “Il sacro diritto dei popoli” a scrollarsi di dosso l’imperialismo coloniale non è il concetto giuridico appropriato per rivendicare il diritto all’autodeterminazione. Ma in questo sovvertimento deliberato si riversa la poetica di Gary. Ha affermato lo scrittore: “Mi sarebbe molto penoso se mi si ingiungesse di usare delle parole che hanno già molto corso, nel senso corrente, senza trovare un’uscita”.

Non vogliamo togliere al lettore il piacere di scoprire quale aiuto darà Momò a madame Rosa affinchè la fine della sua vita non sia una ripetizione in piccolo di ciò che aveva vissuto ad Auschwitz. Possiamo solo immaginare il sorriso ironico di Romain Gary se gli confessiamo che nel suo romanzo ritroviamo, anticipate di molto tempo, le angosce per la via da prendere quando abbiamo la morte davanti a noi.

Momò non è cresciuto in questi trent’anni e più trascorsi dal suo apparire sulla scena della letteratura. Se i nostri sguardi oggi si incrociano con il suo, significa forse che siamo giunti noi a interrogarci sulla vita e sulla morte a modo suo. Non so però se con la sua saggezza senza tempo. Senza essere reduci da Auschwitz, come Madame Rosa, abbiamo anche noi l’incubo di essere risucchiati da un sistema a cui sta a cuore di prolungare la nostra vita biologica, quando ormai quella della persona si è spenta.

Il diritto a decidere sulla propria vita suona retorico come “il sacro diritto dei popoli” nell’epoca dell’imperialismo. E le parole (accanimento terapeutico, eutanasia, autodeterminazione…) si sono tutte consumate in un dialogo tra sordi in cui rimbalzano da un interlocutore all’altro, senza riuscire a scalfire posizioni ideologiche consolidate. 
Se queste parole girano come impazzite, senza trovare una via d’uscita, non è da loro che ci aspettiamo un aiuto per liberarci dall’angoscia di una morte in regime di medicalizzazione a oltranza. 
Forse dovremo prendere in prestito da Momò la sua provocatoria proposta: quando la vita giunge alla fine, cerchiamo di avere accanto un puro di cuore, che ci “abortisca” per impedire quella sofferenza aggiuntiva e degradante che può imporci la medicina.

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