Chiamatemi Care Giver
Dare un nome, per dare valore a chi si prende cura
di Silvana Bertoglio
20 novembre 2008: un convegno a Milano su un ruolo sempre più importante nella nuova società
È sufficiente trovare una definizione per aiutare chi si trova coinvolto, travolto, assorbito nella cura di una persona? Basta organizzare un convegno per dare sollievo a chi è impegnato in un’assistenza fisica, mentale, materiale, emotiva, affettiva? Basta dare la parola al principale attore di questo processo di presa in cura?
Certo non basta. Non è sufficiente. È un primo passo.
Per dare riconoscimento e dignità a chi si prende cura di una persona che si ammala, che soffre, che perde autonomia, che muore. Per dare tempo e spazio al pensiero e al confronto a chi è impegnato in modo “cronico” nel fare e nel dare.
Perché il Care Giver si muove all’interno di una relazione in cui si dà mentre si prende, e si prende mentre si dà. Uno scambio reciproco di cure, attenzioni, preoccupazioni, emozioni. Emozioni di intensità e colori molti differenti. A volte difficili da accettare o da integrare.
Un angelo silenzioso – questa una delle definizioni trovate da Mario Melazzini, presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica – che si trova ad avere a che fare con un “sapone avvolto da un filo spinato”. Questo è il modo in cui viene descritto il malato di SLA. Questo è il modo in cui Melazzini descrive il proprio vissuto di malattia. Un racconto che colpisce per la capacità di arrivare, di entrarti dentro senza perdere lucidità, con una dignità profonda.
Il Care Giver che si trova ad affrontare e gestire le difficoltà che la malattia si porta con sé. Una malattia a volte dimenticata in quanto tale – come ci dice Angelo Bianchetti, neurologo e geriatra, direttore di Dipartimento funzionale medico riabilitativo dell’Istituto Clinico S. Anna di Brescia, che da anni si occupa di demenza e di Alzheimer – e confusa con l’assistenza. Un Care Giver che da vittima deve necessariamente diventare risorsa.
Dove sta l’istituzione in tutto questo percorso? Cinzia Gagliardi, dell’ unità operativa accreditamento RSA e hospice della Regione Lombardia, ha tentato di dare una prima risposta, illustrando la costruzione della rete dei servizi socio sanitari a supporto della famiglia e di chi presta assistenza.
Illustrare la dimensione relazionale del prendersi cura è poi compito di Carla Gaddi, psicologa esperta servizi socio-sanitari. Prendersi cura di una persona con cui abbiamo realizzato un legame significativo quando autonomia e autosufficienza si riducono, apre un’esperienza profonda, nel corso della quale cura dell’altro e cura di sé sembrano presentarsi come istanze poco conciliabili. Viene percepita una sorta di minaccia anche alla propria integrità fisica e mentale, che trova multiformi modi per esprimersi, sottesi da equivalente significato “è troppo difficile, non ce la posso fare, vado in pezzi, non ci sto dentro”. E si apre un percorso faticoso, durante il quale le persone coinvolte sperimentano stati d’animo intensi e poco coesi: angoscia, ansia, desiderio di morire e di vedere morire, violenti sentimenti di colpa e di rabbia contro.
E a questo punto, che cosa c’entra l’economia? Non rischia di impoverire una riflessione così carica di significato?Francesco Longo, direttore del CERGAS, Centro di ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale della Bocconi, dà un contributo prezioso nella ricerca di definizione di Care Giver e di Case manager, e invita ad un ripensamento dei modelli organizzativi del territorio. Per non oscillare tra troppo e troppo poco.
E come insegnare a chi si trova coinvolto in un così difficile lavoro di cura?
Accompagnare, dare valore all’esperienza. Dare spazio alla meraviglia, intesa come saper interrompere la ripetizione sempre uguale delle cose. Rinforzare la capacità di dare senso alle azioni. Così Susanna Galli, responsabile del servizio formazione del settore sviluppo delle professionalità, direzione Affari sociali della Provincia di Milano, pensa il percorso di integrazione tra formazione e lavoro di cura.
E poi spazio a loro. Ai Care Giver. Alle associazioni, ai gruppi di auto-mutuo-aiuto, a chi si è “inventato” un modo per alleggerire un peso insostenibile. Spazio a chi si trova ad accompagnare durante il percorso di malattia, di perdita, di morte.
Le conclusioni sono lasciate alla visione di alcune scene tratte da un film. Una scelta sapiente da parte di un moderatore che ha saputo rompere le distanze tra esperti e Care Giver. Forse di questo hanno bisogno.
Basta un convegno? Certo non basta.
Il convegno “Chiamatemi Care Giver”, organizzato dal Gruppo Segesta al Palazzo delle Stelline, il 20 novembre, non basta.
È un primo passo.
Informazioni
Gruppo Segesta – Antonella Ferioli, responsabile comunicazione Gruppo Segesta
- On 21 Settembre 2012