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Quando Lazzaro invoca la morte

“A un certo punto della vita non è la speranza l`ultima a morire, ma è il morire l`ultima speranza” (Leonardo Sciascia: Una storia semplice)

Un articolo del professor Sandro Spinsanti, tratto dalla rivista Janus.

di Sandro Spinsanti

Chiunque abbia a cuore il migliore interesse di un’altra persona, è autorizzato a procurarglielo, indipendentemente dalla volontà di quest’ultima di riceverlo? E’ una questione di vitale importanza per tutti i sistemi di pensiero che abbiano un’idea forte di ciò che è bene per l’essere umano e siano determinati a procurarglielo. A qualunque prezzo. Stiamo parlando di sistemi politici, di strutture religiose e, fatte tutte le proporzioni, di quell’impresa “benefica” che si chiama medicina. 

I padri fondatori della democrazia degli Stati Uniti hanno scritto sul frontone della Dichiarazione di indipendenza che tutti gli esseri umani sono stati dotati, tra i loro diritti fondamentali, oltre a quello alla vita e alla libertà, del diritto di “cercare la felicità”. Ognuno a modo proprio. Ma è proprio ciò che tutti i sistemi totalitari, secolari o religiosi, negano. Nella presunzione di sapere qual è il bene per l’uomo, lo perseguono senza deflettere dall’intento. 

Quanta violenza sia contenuta dentro progetti di questo genere ce lo descrive un romanzo dotato di una forte carica satirica. Ha per oggetto la religione, ma lascia intendere che il suo bersaglio sono le ideologie politiche. E, magari senza volerlo direttamente, colpisce alcune pratiche della medicina dei nostri giorni. 
È un’opera letteraria che possiamo considerare datata: l’originale, in serbo-croato, è stato pubblicato nel 1965; la traduzione italiana solo quarant’anni dopo. Stiamo parlando del romanzo di Borislav Pekic: Il tempo dei miracoli(Fanucci ed., 2004).

Un antefatto biografico del romanziere è essenziale per capire in quale terreno di coltura il libro ha avuto origine. 

Nato nel 1930, Pekic nel 1948 è un adolescente inquieto. Si iscrive a un partito illegale, Gioventù Democratica Jugoslava, e ciò basta per farlo condannare a quindici anni di carcere duro. Ne sconta cinque: nel 1953 giunge la grazia e viene rimesso in libertà. Durante il tempo della detenzione ha solo un libro a disposizione: la Bibbia. 
Non stupisce che il suo primo romanzo, Il tempo dei miracoli appunto, abbia come argomento l’attività taumaturgica di Gesù.
Il resto dell’attività artistica di Pekic è consegnato alla storia della letteratura, che lo considera uno dei vertici della cultura serba: oltre che come romanziere, si è fatto un nome come drammaturgo e sceneggiatore cinematografico. È morto nel 1992 a Londra, dove si era trasferito già nel 1971.

Il tempo dei miracoli esordisce collocando in epigrafe la risposta di Gesù ai discepoli del Battista che erano andati a chiedergli se era lui “colui che ha da venire”: 

“Andate e riferite a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi vedono, gli storpi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono; i morti risuscitano” (Matteo 11, 2-6). 
Nessuna paura: non siamo sulla soglia di un’opera devozionale. Al contrario, Pekic mette in piedi una scenografia dell’assurdo, rovesciando l’esito dei miracoli operati da Gesù: invece di produrre salvezza, fanno precipitare le persone miracolate in un destino ancora peggiore di quello di partenza. 
Il lebbroso mondato, per esempio, viene rifiutato dalla città dei sani e, quando cerca di ritornare nella comunità dei lebbrosi, viene respinto anche da questi: si trova così a languire in una terra di nessuno, senza alcun radicamento. 
Il muto era in realtà protetto dalla mancanza di parola: quando il miracolo gliela ridà, comincia a esprimere le sue opinioni politiche relative agli occupanti Romani, così che questi lo imprigionano e lo giustiziano. 
E il cieco nato, a cui sono aperti gli occhi, così che può ora vedere le brutture del mondo, preferisce riaccecarsi: “Mi ha aperto gli occhi, ma non avendo trovato che cosa guardare con essi, io li ho chiusi. Li ho scavati per sicurezza. In questa epidemia di Salvatori, un uomo onesto deve sapersi difendere”.

Il vertice narrativo è il settimo dei miracoli rovesciati: la risurrezione di Lazzaro. 

Appoggiandosi al Vangelo di Giovanni, Pekic attribuisce a questo miracolo un ruolo decisivo nell’escalation di ostilità delle autorità religiose ebraiche nei confronti di Gesù: decidono di metterlo a morte per arrestare il movimento dei suoi seguaci. 
Non solo: “I capi dei sacerdoti decisero di uccidere anche Lazzaro, perché molti andavano a vederlo e credevano in Gesù” (Giovanni, 12, 10). 
Con più rigore teologico, Pekic riconduce l’ostilità al gruppo dei sadducei, i quali rifiutavano la credenza nella risurrezione dei morti: Lazzaro riportato in vita era la smentita di un loro dogma.

Il racconto di Pekic è incentrato su Hamri, il fedele servo di Lazzaro di Betania. 

Lo troviamo in apertura di narrazione impegnato in un compito delicato: sta raccogliendo legna per fare un rogo su cui bruciare il corpo di Lazzaro, che ha trascinato di nascosto sul monte degli Ulivi. Dalla sua voce veniamo a conoscere l’antefatto. Gesù è apparso in casa del ricco possidente Lazzaro come “lo straniero che porta disgrazia, perché non rispetta le leggi date da Dio sulla vita e la morte”. Le autorità religiose, ostili al nuovo profeta, arrestano Lazzaro e lo fanno lapidare. Su richiesta delle sorelle Maria e Marta, Lazzaro dopo tre giorni di sepoltura viene riportato in vita da Gesù. Giuda interpreta subito la risurrezione come una vittoria personale di Gesù sui sadducei. Ma questi non si danno per vinti. Arrestano di nuovo Lazzaro. In prigione ha luogo un lungo e snervante confronto con Nicodemo, portavoce dei sadducei. Lazzaro viene indotto a riconoscere che il bene superiore della religione richiede che egli muoia di nuovo. Nuova lapidazione, nuova sepoltura, nuova risurrezione. E nuova condanna a morte del risorto.

A questo punto Lazzaro è diventato la pedina di un gioco che si svolgeva sopra la sua testa: i sadducei e il Messia si contendevano Lazzaro per verificare sulla sua pelle i propri dogmi. La risurrezione di Lazzaro è un’arma nella guerra tra i cristiani e i loro nemici: i sadducei non l’avrebbero lasciato in vita, i cristiani non l’avrebbero lasciato morire. Il fedele servo Hamri è determinato, su richiesta di Lazzaro, a distruggere il cadavere “per impedire che le iene apostoliche lo strappino alla terra (per la terza volta!)”. Ancora una volta, dunque, il tempo dei miracoli si è rivelato un incubo, dal quale sarebbe meglio fuggire.

L’insieme della vita e dell’opera di Pekic ci fornisce una chiave interpretativa di natura più politica che teologica. 

Lazzaro e gli altri miracolati sono vittime di un’impresa rivolta a procurare loro una salvezza che non avevano richiesto, in un modo che non coincideva con le loro aspirazioni. Bersaglio del satirico rovesciamento operato da Pekic è più il sistema comunista di Tito che l’avventura religiosa del messianismo cristiano. I miracoli imposti da una potenza salvifica che non rispetta la libera volontà delle persone sono una metafora del messianismo laico proposto dal comunismo.
Basterebbe rileggere l’interrogatorio in carcere di Lazzaro e le abili argomentazioni di Nicodemo che lo convincono di essere, invece che miracolato, complice di un sovvertimento nell’ordine sociale sulla falsariga di Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler: ritroviamo lo stesso assolutismo ideologico. 
Pochi anni dopo aver pubblicato Il tempo dei miracoli, Pekic avvertirà come incompatibile il clima jugoslavo con la sua aspirazione alla libertà ed emigrerà in Inghilterra. 
Nel 1977 pubblicherà Come placare il vampiro, basato sulla sua esperienza di cinque anni di prigionia, continuando ad analizzare i meccanismi e la logica del moderno regime totalitario che la sua patria ha conosciuto sotto il comunismo.

Operando un deliberato spaesamento, ci piace rileggere la storia di Lazzaro inventata da Pekic sullo sfondo dei problemi che suscita oggi il processo di morire. 

La medicina può svolgere il ruolo di un potere totalitario che opera su di noi “miracoli” che non abbiamo domandato. Ma soprattutto ci inquieta la strumentalizzazione delle vicende di singole persone come argomentazioni a sostegno di sistemi morali; e ancor più, dal momento che i sistemi morali amano scendere in battaglia gli uni contro gli altri, come corpi contundenti nelle polemiche ideologiche. 
L’etica è una grande risorsa per far crescere l’umanità. Ma secondo la saggezza latina, “corruptio optimi pessima”; ovvero, per dirla con lo scrittore americano David Thoreau, “non c’è odore peggiore di quello che proviene dalla bontà andata a male”. 
Abbiamo l’impressione che certe battaglie a colpi di principi etici sui corpi di poveri Lazzari del nostro tempo, presunti beneficiari ma spesso anche vittime della medicina tecnologica, rientrino nella categoria della bontà andata a male.

Quando i principi etici, assoluti e non negoziabili, vengono invocati contro la volontà delle persone alle quali si vuol imporre un beneficio che non riconoscono, si suscita un onesto rifiuto dell’etica. 

Già in un dramma del 1926, intitolato Lazzaro, G.A. Borgese faceva dire al suo protagonista, inaspettatamente risuscitato: “O Cristo, fammi morire per sempre”. 
E Agor, la moglie che il drammaturgo attribuisce a Lazzaro, di rincalzo: “Lazzaro! Una la vita e una sola la morte!”. 
Chi aborrisce un destino di vita larvale, in epoca in cui i massimi sistemi si contendono il diritto di stabilire i confini e di determinare per lui la giusta misura, non ha che una risorsa: affidarsi a un fedele Hamri che lo tenga nascosto, finchè si sia placato il furore degli scontri ideologici.

  • On 21 Settembre 2012
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