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Le parole del diritto. Riflessione n. 1

di Chiara Lucchini

La lingua del diritto è lingua tecnica o lingua sacerdotale? L’oscurità, l’antilingua, è una cifra stilistica o una forma di esercizio del potere?
Nel nostro ordinamento abbiamo, però, anche testi normativi esemplari per sintesi, chiarezza, sobrietà, flessibilità e rigore: primo fra tutti, la Costituzione della Repubblica italiana.

L’oscurità delle leggi: la lingua come esercizio del potere

L’oscurità delle leggi è un male: un male che diventa «grandissimo, se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi (…) Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni.»
Così scriveva Cesare Beccaria nel capitolo 5 (“Oscurità delle leggi”) del trattato Dei delitti e delle pene, chiarendo il nesso fra oscurità linguistica ed esercizio del potere.

Essendo un linguaggio di settore, la lingua del diritto si caratterizza per una terminologia tecnica necessaria: vi sono categorie e concetti che non possono essere espressi utilizzando la lingua comune. Un certo tasso di complessità è inevitabile nel discorso giuridico.
Tuttavia, il linguaggio dei giuristi si è sempre caratterizzato come una lingua sacerdotale piuttosto che tecnica, in cui l’oscurità non necessaria è cifra stilistica e, soprattutto, sottile e autoritaria forma di esercizio del potere.

Eccesso di aggettivazione e in generale ridondanza linguistica, uso di pseudotecnicismi e di un lessico inutilmente raro sono elementi che troviamo nello scrivere e nel parlare dei professionisti del diritto.
A differenza del tecnicismo specifico, che è indispensabile per indicare un concetto o una categoria esistente solo in un determinato settore, gli pseudotecnicismi sono parole apparentemente specialistiche, ma in realtà prive di necessità concettuale. Vengono utilizzate per pigrizia, per conformismo, e per conferire ai testi una parvenza di formalità. Ostacolano la comprensibilità e circoscrivono la comunicazione ai soli specialisti, senza che ve ne sia una necessità tecnica.
Per esempio, “Società in accomandita semplice”, “incidente probatorio” e “contumacia” sono espressioni tecniche. Quando, invece, il giudice dice che “si è proceduto all’escussione di un teste”, adopera uno pseudotecnicismo: lo stesso concetto potrebbe essere espresso più semplicemente dicendo che è stato esaminato un teste.

La lingua dei giuristi è una lingua iniziatica. Stereotipi, arcaismi, frasi formulari, abuso di subordinate e interpretazione spregiudicata della grammatica e della sintassi. È forma e strumento di un esercizio autoritario del potere.

L’abuso del gergo si spiega, in parte, con la pigrizia, in parte con il conformismo e in parte con la vanità e l’autocompiacimento. Sarebbe invece indispensabile esercitare un controllo inflessibile sulle formule raggelate e oscure, sul lessico iniziatico, sulle costruzioni involute e pseudo letterarie, senza per questo tentare una illusoria e impossibile semplificazione di tutto e a tutti i costi.

A proposito di semplificazione, diceva Italo Calvino: «Quando le cose non sono semplici, pretendere la semplificazione a tutti i costi è faciloneria, e proprio questa pretesa obbliga i discorsi a diventare generici, cioè menzogneri. Invece lo sforzo di cercare di pensare e d’esprimersi con la massima precisione possibile proprio di fronte alle cose più complesse è l’unico atteggiamento onesto e utile.»

Gianrico Carofiglio ha proposto, come esempio di semplificazione possibile, una sentenza della Corte di Cassazione, che afferma: «Partendo, dunque, dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le argomentate riflessioni del PG requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale, stabilire se la postulata connessione nomologica che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di certezza processuale che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva.» (Cassazione, Sezioni unite, sentenza n. 27 del 10/7/2002)
In sintesi, il concetto è: «occorre verificare se la condotta omissiva dell’imputato è stata causa dell’evento».

L’antilingua e il terrore semantico

Lo stesso Calvino che denunciava l’antilingua. Celebre il pezzo del 1965, nel quale immaginava la verbalizzazione di un interrogatorio relativo al furto di alcuni fiaschi di vino.

«Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente.
Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono, parlano, pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, (…) Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa.»

Il «terrore semantico», la fuga dinanzi alla concretezza delle parole e dei significati, induce il brigadiere di Calvino a verbalizzare «un quantitativo di prodotti vinicoli» invece di «tutti quei fiaschi di vino»; di sostituire la chiarezza di «ne ho preso uno per bermelo a cena» con un’espressione astratta e involuta come «di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano».

Questo fenomeno provoca una netta separazione fra le parole e la realtà: una scissione drammatica nella politica e nel diritto, che dovrebbero fondarsi su linguaggi densi di realtà, fatti di cose.
Al contrario, Calvino difende l’uso delle parole che indicano con esattezza le cose: «Il mio ideale linguistico è un italiano che sia il più possibile concreto e il più possibile preciso. Il nemico da battere è la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche».

Tra i giuristi, invece, sembra prevalere l’idea che si debba usare un linguaggio diverso da quello della vita comune, forse per rivendicare la nobiltà della professione.
Eppure l’articolo 12 delle Disposizioni sulla legge in generale (Preleggi), poste in apertura al Codice civile, è chiaro:

«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.»

Questo richiamo all’esattezza dei significati dovrebbe costituire un punto di riferimento per il giurista, non solo nell’interpretazione, ma anche nella scrittura.

La Costituzione della Repubblica Italiana: un esempio sintesi, chiarezza, sobrietà, flessibilità e rigore

Non mancano, tuttavia, testi giuridici scritti con parsimonia, precisione ed eleganza. Il più importante è la nostra Costituzione.
Perché un testo sia condivisibile dai destinatari (per la Costituzione, dai cittadini), sono essenziali due caratteristiche: deve essere scritto in un linguaggio piano, diretto e lineare (formato cioè il più possibile sul vocabolario di base) e articolato in frasi brevi che non superino le venticinque parole.

La Costituzione italiana è un testo breve: 9369 parole, articolate in frasi che non superano in media le venti parole.
I lemmi utilizzati sono 1357, di cui 1002 appartengono al vocabolario di base della lingua italiana.
La media dei commi degli articoli della Costituzione è tre.
I vari tentativi di modifica della Costituzione sono stati spesso dannosi, o inutili, a partire dall’aspetto dell’uso della lingua e delle parole.

In Assemblea Costituente, è noto, si scontrarono diverse posizioni ideologiche. Ma il fatto di provenire da accordi e compromessi non ha pregiudicato la chiarezza e la linearità del testo, secondo quelle direttive e quei caratteri che i Costituenti si erano fissati fin dall’inizio dei lavori: «la Costituzione dovrà essere il più possibile chiara e tale che tutto il popolo la possa comprendere» (ordine del giorno Bozzi del 26 ottobre 1946 nell’adunanza plenaria della Commissione per la Costituzione). Sono quei medesimi caratteri che compaiono spesso nelle discussioni in aula: la lingua della Costituzione dev’essere comprensibile, bronzea, lapidaria, breve, disadorna, solenne, incisiva, semplice, cristallina, seria.
Per Calamandrei la lingua della Costituzione dev’essere leale, anche per far riacquistare ai cittadini il senso di legalità, cioè quell’obbligo morale, prima che giuridico, che ogni cittadino dovrebbe avere di rispettare le leggi.

Alta leggibilità
Sono stati i cultori della lingua ad additare il testo della legge fondamentale come modello di scrittura normativa.
Per il lessico, innanzitutto. Abbiamo già detto che le parole della Costituzione sono perlopiù tratte dal vocabolario di base italiano. I tecnicismi giuridici sono pochi; poche anche le ridefinizioni e i tecnicismi collaterali.
Modello di scrittura normativa, in secondo luogo, per la lunghezza della frase e del periodo: periodi che di rado superano le venti parole. La Costituzione ha una leggibilità molto alta, ed è quindi in grado di far arrivare il proprio messaggio al numero più elevato possibile di destinatari.
La comprensibilità della Costituzione dipende, inoltre, anche dalla costruzione retorica del testo, dalla distribuzione degli argomenti, dall’uso sapiente della punteggiatura.

Quindi: periodi brevi, preferenza della paratassi (coordinate) sulla ipotassi (subordinate), frase principale che precede le subordinate, pochi incisi, indicativo presente con valore prescrittivo, raro uso del congiuntivo e del gerundio: è questo il vademecum dello scrittore di testi normativi secondo i manuali. Sono tutte caratteristiche proprie della Costituzione. Assenti, invece, nelle leggi di oggi e nelle più recenti modifiche costituzionali che spezzano l’equilibrio e l’asciuttezza del testo originario.

Manuali di stile
Gli Stati Uniti si sono dati il primo manuale di stile per la redazione di atti e documenti nel 1894, testo che oggi è giunto alla trentesima edizione.
In Italia, i primi progetti per la semplificazione del linguaggio amministrativo risalgono agli anni Novanta: il primo è del 1993, e ha avuto come risultato la redazione del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso della Amministrazioni Pubbliche.
Nel 1997 un gruppo di lavoro formato da linguisti e giuristi ha redatto un Manuale di stile volto a semplificare il linguaggio della pubblica amministrazione.
Non esiste ancora invece, per l’Italia, un vero e proprio manuale di stile giuridico.
Negli Stati Uniti è stato pubblicato nel 1991 The Elements of Legal Style: un manuale che fissa le regole basilari dell’uso, dall’interpunzione al lessico, dalla grammatica alla sintassi, dall’actio all’elocutio. «La vita degli uomini può dipendere da una virgola» è la frase che apre il capitolo sulla punteggiatura. Famoso l’esempio della virgola fatale: «Grazia non possibile uccidere». La virgola dove va? Dopo “grazia” o dopo “possibile”?

Si legge nella prefazione:

«Noi giuristi possediamo solo le parole. Noi non possiamo prescrivere medicine ai nostri pazienti. In un processo, nella stesura di una lettera, nella redazione di un contratto, in una trattativa, le parole sono il nostro unico strumento di lavoro. Quando si scrive, quando si parla, l’unico vero obiettivo è la chiarezza».
  • On 30 Novembre 2017
Tags: Chiara Lucchini, le parole del diritto riflessione n 1, Palestra della Scrittura
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