
Sinestesia. Il Cenacolo Vinciano
Intervista a Pietro Petraroia – di Paolo Carmassi
Prima di parlare del Cenacolo e di Leonardo e al di fuori delle definizioni, cos’è dal suo punto di vista la sinestesia?
La prima considerazione che mi viene da fare è che i sensi sono sempre e comunque interattivi nelle persone, in qualsiasi momento della vita, sia quando dormono sia quando vegliano: credo che la ricerca nel campo delle neuroscienze ce lo abbia confermato in ogni modo, anche arrivando a “misurare” le attività cerebrali.
Da un certo punto di vista, è quasi artificioso parlare di sinestesia come di una particolare forma di approccio a un’esperienza umana: penso infatti che l’esperienza umana sia sempre sinestetica. Un particolare tipo di evoluzione culturale nel corso degli ultimi 2500 anni nella nostra macroarea geografica (essenzialmente l’Europa), ci ha portato a pensare che la nostra conoscenza possa essere ritenuta più affidabile se, prendendo le distanze dalla prima esperienza, quella sensoriale, ci abituiamo a distinguere e gerarchizzare i diversi “canali” percettivi, di àisthesis.
Così come noi siamo capaci di avere la sensazione di avere sensazioni, siamo anche capaci di selezionare alcune delle nostre percezioni sensoriali, mettendole almeno momentaneamente “tra parentesi”, per concentrarci invece su una determinata percezione “dominante”, alla quale siamo per varie ragioni più attenti o interessati; e questo fenomeno può evidenziarsi anche quando facciamo esperienza di opere d’arte.
Assolutizzare in modo continuativo questa attitudine, privilegiare cioè la conoscenza costruita con un approccio monosensoriale, è in realtà più un’abitudine culturale, tipica della nostra civiltà, che non una modalità “naturale”, ma ci porta a convincerci che la sinestesia sia una forma eccezionale di approccio alla percezione.
Oggi entriamo in contatto col Cenacolo attraverso un percorso turistico. E’ cambiata a suo avviso, la percezione dell’opera rispetto alle intenzioni di Leonardo?
Sì, basti pensare che in principio non si entrava nel Cenacolo passando direttamente dalla piazza, come oggi avviene: al tempo di Leonardo la relazione di senso fra chiesa, chiostri e refettorio nutriva i diversi momenti della vita conventuale; essa è oggi appena evocata dal percorso di accesso ridefinito alla fine del secolo scorso, meglio comunque che nei decenni precedenti. In origine si accedeva al refettorio dal convento, da una porta verso il fondo della parete destra guardando l’Ultima Cena, un po’ più in fondo rispetto alla posizione dell’ingresso attuale, aperto sulla parete ricostruita dopo i bombardamenti dell’agosto 1943. L’accesso originario al refettorio immetteva improvvisamente in un giuoco tra spazi veri e illusivi, grazie ad una fondamentale modifica che Leonardo apportò al suo progetto originario di costruzione prospettica. Aveva disegni già ben definiti e trasferiti sull’intonaco fresco, quando abbandonò la sua prima idea che – come nei Cenacoli fiorentini – prevedeva una contemplazione direttamente centrale e frontale. Leonardo prese infatti la decisione di rendere significativo non soltanto il momento della visione frontale, ma anche il percorso di accesso, creando, proprio per chi varcava la soglia, l’impressione di una continuità assoluta fra spazio reale e spazio dipinto: così il movimento del corpo si accordava con il percorso degli occhi in un’esperienza cinestetica e visiva, dunque sinestetica.
Non dimentichiamo poi che si entrava nel refettorio per andare a mangiare; dunque la vista della “Cena”, alla propria destra entrando, poteva immediatamente correlarsi all’odore delle vivande che stavano per essere servite in tavola; si poteva insomma avere la sensazione, forse anche olfattiva, di essere a tavola con Cristo e gli Apostoli, tale era il realismo della rappresentazione illusiva. Se tutti noi avessimo il privilegio, come io l’ho avuto per nove anni durante la direzione dei lavori di restauro del Cenacolo, di andare a guardare a poche decine di centimetri di distanza quello che è raffigurato sulla parete, oppure se soltanto sfogliassimo un libro con le riproduzioni a grandezza quasi naturale di particolari del dipinto, ci accorgeremmo dei giuochi che sono stati costruiti con le immagini dei cibi proposti sulla tavola.
Vedremmo anzitutto che la tavolata non è così ricca di imbandigioni; in realtà il pasto è già stato consumato e rimangono quasi degli avanzi: qualche caraffa d’acqua, dei bicchieri di vino rosso smezzati, del pane e alcune fette d’arancia in piatti di peltro, tagliate trasversalmente, evidenziando la perfetta raggiera di spicchi, che si deforma riflettendosi sulle curve interne del piatto metallico. Ci renderemmo conto che viene messo in scena un momento in cui quasi tutto è compiuto; ma proprio in quel momento risuona improvvisa e sconvolgente l’affermazione di Cristo: “Uno di voi mi tradirà”.
Molti ricercatori si sono dedicati allo studio della sintassi emotiva del corpo – mimica, gesti – soprattutto a partire dagli anni ’60-’70 del secolo scorso. Possiamo considerare Leonardo, in particolare in quest’opera, un precursore di tale ricerca?
L’Ultima Cena di Leonardo è costruita sull’isolamento totale del gruppo rispetto al resto del mondo: non ci sono servitori, animali, musici o altri astanti nella scena; un isolamento esaltato dall’uso audace della prospettiva, con un amplissimo salone vuoto alle spalle di Cristo e degli apostoli. Il mondo rimane fuori, appena percepibile sul fondale da quelle tre aperture verso un paesaggio mattinale, quanto mai lontano anche se evoca l’alba della resurrezione. L’annuncio tragico di Cristo sembra creare subito il vuoto nello spazio intorno a lui, ma allude anche ad una cesura nel tempo, segna un discrimine nella storia. L’accadere dell’imprevedibile consente a Leonardo di mettere in gioco la passione enorme, che egli aveva, di capire e raffigurare in qual modo le dinamiche emotive generate dalle percezioni (in questo caso visive e uditive simultaneamente) trasformino, per via di nervi e muscoli, i corpi delle persone nel modellarsi dei volti e nel gestire delle mani.
Se pensassimo di essere semplicemente di fronte ad una descrizione, ad un catalogo di fisionomie e di espressioni gestuali, perderemmo forse l’essenziale dell’invenzione di Leonardo. Dobbiamo invece disporci a cogliere in questo dipinto l’essenza dell’esperienza emotiva umana, che è fortemente relazionale, accorgendoci che nei personaggi dell”Ultima Cena” non vi è una mera descrizione di emozioni altrui, ma in realtà si attua un’evocazione della nostra personale risposta emotiva – veicolata dal nostro sguardo e, diremmo oggi, dai neuroni specchio – nella nostra mente e nel nostro corpo, a partire dal respiro. E quindi ciascuna di quelle gestualità lì rappresentate, se colta dal nostro occhio, diviene quasi un’indicazione per la nostra dimensione emotiva, un po’ come la gestualità del direttore d’orchestra che evoca nei musicisti davanti a lui un certo tipo di interpretazione.
Come visitatori del Refettorio di Santa Maria delle Grazie siamo dunque immersi in una sorta di “laboratorio sensoriale delle emozioni”, capace di unificare le nostre abilità percettive e cognitive, mediante la mobilitazione simultanea di tutti i nostri sensi; siamo dunque quasi invitati a rivivere in noi stessi quei particolari “moti dell’animo”, come li definiva Leonardo: il volgere degli sguardi e la postura delle mani e della bocca, il girarsi del busto, ciascuno a suo modo, così che ogni emozione possa riecheggiare dentro di noi. E quindi, in realtà, a chi guarda viene offerta una sorta di iniziazione all’esperienza della percezione delle proprie sensazioni, o addirittura della simulazione di esse.
Ma Leonardo ci intriga anche perché quelle emozioni si riferiscono non soltanto a esperienze individuali, bensì alla relazione tra individui. Le singole personalità degli apostoli si annodano in gruppi emozionali, come obbedendo ad una partitura musicale. Ecco perché le figure dei Dodici si raggruppano d’un colpo tre a tre, spinte dall’impulso generatosi lì dove l’annuncio del tradimento è stato svelato, ossia sulla bocca appena socchiusa del Maestro. Il Cristo rimane così isolato a destra e a sinistra, benché al centro delle attenzioni di tutti, come la costruzione pro-spettica sottolinea. L’impulso, che dalle sue parole arriva fino alle estremità sinistra e destra della tavolata, agita non solo i pensieri ma anche i corpi dei personaggi e produce in loro interrogativi vicendevoli, ponendoli così tra loro in relazione. In un certo senso, è ante litteram un trattato di quella che Daniel Goleman e altri chiamano oggi appunto intelligenza emotiva. E non tanto per l’abilità di rappresentarla, ma soprattutto per la capacità di attivarla in noi.
Sappiamo che il Cenacolo è stata una delle opere tecnicamente più problematiche di Leonardo. Allo stesso modo ha dovuto affrontare anche dei problemi emotivi?
Matteo Bandello riferisce che Leonardo in certi giorni si recava lì, al refettorio delle Grazie, e restava ore e ore a contemplare il dipinto in corso di esecuzione senza dare neanche un colpo di pennello, o magari uno solo; e altri giorni invece lavorava alacremente “dal nascente sole sino a l’imbrunita sera”, “scordatosi il mangiare e il bere”. Nella descrizione di questo modo di operare viene testimoniata al vivo l’attività interiore dell’artista che si interroga con passione sul rapporto tra sé e il lavoro che sta prendendo forma. E’ un vero combattimento interiore quello di vedere una propria opera – frutto di pensieri, sguardi e gesti di mano – diventare altro da sé, così da dover passare da autore a giudice. C’è poi un momento finale in cui l’autore si stacca dall’opera. A Leonardo – ma non solo a lui – capitò di staccarsi da un’opera anche prima che essa avesse avuto il suo completamento (penso almeno all’Adorazione dei Magi degli Uffizi), anche se forse la spinta ideativa potesse dirsi ormai soddisfatta o superata. Nel caso del Cenacolo sicuramente l’esecuzione è arrivata invece ad un compimento totale, quasi fosse un rifinitissimo ed enorme dipinto su tavola, con tempi lunghissimi di esecuzione. Lo stare per ore nella contemplazione dell’opera d’arte propria, ancora in corso d’esecuzione, o lavorarci invece furiosamente in altri momenti, implica attivazioni mentali e fisiche contrapposte, dunque anche un alternarsi drammatico di ragionamenti emotivi. E la descrizione del modo di lavorare di Leonardo, che le fonti ci hanno consegnato, ci assicura che il processo ideativo ed esecutivo, non privo di incertezze e crisi, fu un’esperienza complessa ed intensamente emotiva, ma anche fisica, e perciò profondamente sinestetica.
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Pietro Petraroia è stato Soprintendente per i Beni artistici e storici per la Lombardia occidentale e la Pinacoteca di Brera dal 1991, ha diretto il restauro del Cenacolo Vinciano (1991‐’99). Dal 1997 al 2007 è stato Direttore generale per la Cultura presso la Regione Lombardia. È stato membro del Consiglio Nazionale per i Beni culturali e ambientali. Dal 2009 al 2011 è stato Direttore generale del Consorzio Villa Reale e Parco di Monza; dal 2011 è Direttore della Funzione specialistica “Expo Milano 2015” presso Éupolis Lombardia. Dal 2012 è advisor del Ministero per i Beni e le attività culturali sul coordinamento delle politiche europee per la salvaguardia del patrimonio culturale, la sicurezza e i cambiamenti globali (JPI); è vicepresidente nazionale di Italia Nostra onlus.
- On 6 Ottobre 2015