Sulla perfezione e imperfezione delle lingue
di Stefano Brega
Tra necessità speculativa e necessità pratica
Circa dieci anni or sono mi trovavo in una situazione comune a molti studenti universitari; indeciso e confuso riguardo la scelta dell’argomento su cui scrivere la mia tesi di laurea.
L’area filosofica in cui volevo laurearmi mi era chiara da tempo (la filosofia del linguaggio) ma brancolavo nel buio su cosa scrivere.
“Quale soggetto scegliere per stupire il mondo con un’opera mai vista?” Era questa la segreta speranza che animava le mie elucubrazioni mentali alla ricerca dell’ispirazione.
Scartai molteplici strade di ricerca, non perché non interessanti ma perché quasi impossibili da perseguire negli stretti vincoli che gli elementi pratici di una tesi di laurea impongono. La praticità, la necessità di formalizzare gli anni di ateneo con un certificato riconosciuto dallo Stato è il nemico peggiore per le intenzioni speculative dei candidi laureandi, in quanto costringe i più ad abbassare la quota del loro volo e a giungere a un più o meno onorevole compromesso tra la speculazione e le tasse universitarie.
La mia necessità speculativa era quella di svelare quanto la conoscenza di quella che noi definiamo realtà dipendesse dal linguaggio e dalle lingue: la necessità pratica era quella di farlo all’interno di un contesto moderatamente ordinario e ragionevolmente veloce. Ecco allora che tentai di incastrare tracce di illuminazione filosofica in un solido ambiente di constatazione storica, servendomi dello spunto datomi da un libro di Umberto Eco, “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea”, il cui venivano descritti i tentativi fatti nel corso della storia di trovare od ottenere una lingua perfetta.
Ribaltando il presupposto
Io allora ribaltai il presupposto e mi chiesi quali fossero le imperfezioni, le mancanze che si ravvisavano nelle lingue storico naturali, tali da determinare la ricerca di una costruzione linguistica che potesse ovviare ai difetti, e perché queste lingue perfette venivano cercate.
In questo modo potevo analizzare le lingue storico naturali da una prospettiva inusuale, sezionandole per capire quali tipologie di difetti i vari studiosi avevano trovato nel corso dei secoli. Potevo aprire una prospettiva per comprendere come le lingue venissero intese nella loro relazione di creazione della conoscenza e della realtà, relazione che si ribaltava per cui le lingue che creavano venivano create e il ciclo così era completo.
La mia tesi infatti introduce il problema delle imperfezioni delle lingue partendo dal problema che in quel periodo mi assillava: cosa è la conoscenza? Quanto possiamo conoscere?Le teorie sulla conoscenza che leggevo e che modestamente cercavo di creare mi portavano tutte a scontrarmi con l’elemento principale con cui noi maneggiamo la conoscenza stessa: il linguaggio inteso nella sua accezione più ampia possibile, cioè tutti i mezzi espressivi e ricettivi di cui siamo capaci, dalla mimica alla metafora. Quindi capivo chi aveva tentato di costruire una lingua perfetta, una lingua in grado di veicolare tutta la conoscenza del mondo. L’idea era di servirmi delle imperfezioni ravvisate da secoli di studi, che mi avrebbero permesso di capire le debolezze già individuate nei codici linguistici e forse trovare la via per eliminarli con una struttura di comunicazione superiore.
Ai confini tra filosofia e linguaggio
Il linguaggio come viatico per la conoscenza, come guida per la risoluzione dei problemi posti da tutte le scienze cognitive. Ma il linguaggio visto sotto la lente di chi ne aveva individuato i limiti e i difetti, dato che solo dopo aver visto i limiti si può tentare di superarli. Come si comprende, mi stavo comportando non tanto come un filosofo ma più come un linguista. Concordemente con le mie scelte di laurea mi stavo comportando come un filosofo del linguaggio, mi limitavo a una sola area della ricerca filosofica, ma come già detto dovevo concedere spazio sia alla speculazione sia alla pratica.
Dalle analisi individuai una relazione tra tutte le imperfezioni ravvisate nel corso della storia, un legame che mi permise di dedurre una sorta di albero genealogico delle imperfezioni in cui una mancanza delle lingue storico naturali generava un’altra, albero che ho riprodotto graficamente e che mi sembrava illuminare quello che era stata l’evoluzione nella ricerca di qualcosa di altro nelle lingue.
Ed è proprio da questo grafico che parte tutto lo svolgimento per la critica sulla ricerca delle lingue perfette, e che porta a toccare una molteplicità di epoche e nazioni. È stato interessante notare come la storia delle imperfezioni sia strettamente legata alla storia stessa del genere umano, quasi che eventi sociali e lingua siano (ora l’uno ora l’altro) in rapporti di causa ed effetto.
Linguaggio > storia > linguaggio
Il linguaggio dunque che crea la storia e la storia che crea il linguaggio.
Scorrendo tutta l’aneddotica della ricerca del limite delle lingue, paradossalmente il potere creativo di queste ultime mi pareva sempre più evidente; paradossalmente i (numerosi) limiti che i costruttori di lingue perfette trovavano erano invece dimostrazioni di come il linguaggio e le lingue sfuggono al nostro discernimento, a qualsiasi nostra categorizzazione.
Il linguaggio e le lingue dunque ci aiutano a comprendere cosa sia la conoscenza certo, ma per un elemento compreso si aprono nuove domande che svelano come il limite sia molto, molto più avanti.
Quindi le imperfezioni ravvisate sono veramente tali? E la lingua perfetta esiste veramente?
Esiste la lingua perfetta?
Otto anni fa, quando questa tesi venne scritta avrei risposto in maniera decisa: no, le imperfezioni non sono veramente tali, e la lingua perfetta, la lingua che ci porti direttamente nel cuore della conoscenza non può essere costruita servendosi dei mezzi della lingua stessa.
Otto anni dopo, otto anni di ulteriori studi, studi portati unicamente nell’estremo della speculazione (dato che le tasse universitarie avevo smesso di pagarle) mi hanno condotto verso una visione differente.
Rileggendo la mia tesi in occasione di questa pubblicazione online, mi sono trovato in disaccordo su alcuni punti, su alcune affermazioni e conclusioni.
Differentemente da quanto accade solitamente nella vita, l’avanzare dell’età non mi ha reso più accomodante, ma ha invece radicalizzato le mie posizioni a volte in maniera scomoda (naturalmente sto parlando solo delle mie posizioni filosofiche e linguistiche, per il resto l’età ha attenuato e attenuerà molte delle mie prese di posizioni estranee alla filosofia).
Se nella tesi accordo alla filosofia una dimensione solo teorica, ora respingo con forza una affermazione del genere. Se nella tesi definivo una notevole importanza alla scienza cognitiva, ora la mia opinione è che la scienza cognitiva ha una struttura essenzialmente errata, e che molte delle sue caratteristiche non sono altro che banalizzazione della filosofia.
Oggi comporrei i risultati della mia ricerca storica in modo differente, e disegnerei un percorso di ricerca che giungerebbe a risultati non paragonabili ai risultati a cui arrivo nel mio lavoro di tesi. La ricerca che attuerei sarebbe molto più filosofica, evitando l’errore di rivolgersi a un solo settore della filosofia, dato che in realtà le categorizzazione e le aree in cui la filosofia è stata divisa sono solo delle chimere dettate dalla necessità tutta occidentale di schematizzare e ordinare qualsiasi cosa si presenti ai nostri sensi.
Nei panni del filosofo
La filosofia è una, e non è solo teoria, ma è una disciplina che investe in modo totale la persona che decide di vivere da filosofo. Con i panni completi del filosofo allora vedrei le considerazioni sulle imperfezioni e sulla lingua perfetta decretando l’inutilità di ogni ricerca di questo genere. Inutilità anche perché il linguaggio e le lingue una volta che vengono studiate, sezionate, schematizzate (come le teorie sulle lingue perfette presumevano di fare) perdono molto del loro potere. Una lingua che è descritta in maniera sistematica attraverso l’invenzione della sintassi della semantica, e che è pensata in quel modo, perde la capacità creativa perché le è stato imposto un limite. Il limite che farà poi scaturire l’imperfezione, imperfezione che allora non è connaturata alla natura stessa della lingua ma alla natura propria dell’uomo (di solito occidentale o occidentalizzato). È l’uomo dunque che crea le imperfezioni delle lingue, imperfezioni che sono pure illusioni che non appartengono alla comunicazione e che l’uomo non può superare, perché significherebbe superare se stesso, il che non vuol dire progredire ma trasformarsi.
Il linguaggio e le lingue sono atti puramente e continuamente creativi, che nessuna regola riesce a imbrigliare senza snaturarne l’essenza.
Anche in questo momento sto cercando di creare qualcosa, dato che sto cercando di descrivere la lingua attraverso se stessa, ma non è solo con l’ordine sintattico e semantico che io sto cercando di trasmettere il significato immateriale dei miei pensieri, ma anche attraverso un contesto inafferrabile che è dato dalla storia, dal suono e dalla disposizione d’animo.
Ridurre tutto questo solamente a sintattica e semantica sarebbe come pensare che il significato di un poema sta nell’inchiostro della penna che l’ha scritto e non nella parziale rappresentazione dell’anima che il poeta ha fatto nelle righe che ha composto.
È dunque l’irripetibile atto creativo della parole di De Saussure, o i limiti del linguaggio che definiscono i limiti del mio mondo (Wittgenstein), se avanza uno viene creato l’altro e viceversa. È questo che bisogna trattare.
È un atteggiamento olistico quello che occorrerebbe per descrivere il linguaggio, la conoscenza e la realtà, le settorializzazioni ci danno solo qualche particolare e non illuminano il quadro completo.
Al di là degli schemi
Il linguaggio e le lingue sembrano essere perfette così come sono, se noi non le categorizziamo, se riusciamo a espanderle al di là degli schemi precostituiti riusciamo anche a scorgere nuovi brani di realtà che poi possiamo comunicare agli altri. Quindi dovremmo disimparare la struttura per avere la lingua perfetta, dovremmo fare tabula rasa degli schemi e lasciare solamente una sottile ragione che non riesco a descrivere (probabilmente perché non ho abbattuto gli schemi) ma che posso provare a paragonare alla ragione dei poeti in mancanza di termini migliori.
Il linguaggio, la conoscenza, la realtà sono alcuni degli elementi che ci circondano in ogni momento, strutture in cui siamo completamente immersi, che ci condizionano e che condizioniamo, ma che non sono né definibili né descrivibili, che esistono perché li avvertiamo ma che contemporaneamente scompaiono nel momento in cui cerchiamo di descriverli.
Sulla perfezione e imperfezione delle lingue è stata una faticosa ma bella esperienza, da cui ho cominciato ad apprendere come il Tutto, più che essere uno schema definito e in sviluppo, è una nube multiforme e inafferrabile, con ampi scenari di estrema soggettività.
21 maggio 2006
- On 19 Settembre 2012