
Dai mille dialetti d’Italia a una “nuova dialettalità”
di Chiara Lucchini
Molti anni son passati dagli slogan in lingua padana del machismo bossiano.
Se pensavamo di non poter precipitare oltre, in politica, con il livello dello stile comunicativo, questi mesi ci stanno abituando a ben altri precipizi.
Eppure l’orrore per il sovranismo salviniano, miope, razzista, antieuropeo, strapaesano, non c’impedisce di guardare con curiosità e simpatia al ricco patrimonio dei dialetti italiani, oggetto di questo articolo.
Definizione di dialetto
Il termine dialetto deriva dal greco diàlektos, che originariamente significava “conversazione” e poi anche “lingua di un determinato popolo”.
Questa la definizione di dialetto nel Gradit, il Grande dizionario italiano dell’uso, diretto da Tullio De Mauro:
Dialetto: sistema linguistico usato in zone geograficamente limitate e in un ambito socialmente e culturalmente ristretto, divenuto secondario rispetto a un altro sistema dominante e non utilizzato in ambito ufficiale o tecnico-scientifico.
Da questa definizione emergono alcuni criteri definitori:
a. Un criterio geografico: “Sistema linguistico usato in zone geograficamente limitate”.
b. Un criterio sociale: “Sistema linguistico usato in un ambiente socialmente e culturalmente ristretto”.
c. Un criterio gerarchico: “Sistema linguistico divenuto secondario rispetto a un altro sistema dominante”.
d. Un criterio funzionale: “Sistema linguistico non utilizzato in ambito ufficiale o tecnico-scientifico”.
Orgoglio e pregiudizio
Quando si discute di dialetto, spesso si sente dire: «il napoletano (così come il veneziano o il siciliano o uno qualsiasi dei tanti dialetti) è una lingua, non un dialetto». Una rivendicazione orgogliosa della propria identità linguistica, quasi che il termine dialetto avesse un valore negativo, un senso deteriore.
Qui intervengono questioni ideologiche.
Interessante una ricerca condotta sui bambini della scuola primaria, di cui si riferisce nel saggio di Giovanni Ruffino L’indialetto ha la faccia scura. Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani (Sellerio, 2006).
La domanda posta ai bambini era: “Qual è secondo te la differenza tra lingua italiana e dialetto?”.
Questa la risposta di una bambina di 9 anni, alunna della scuola elementare di Partinico, in provincia di Palermo:
La differenza tra la lingua italiana e quella siciliana è che gli italiani parlano una lingua corretta mentre i siciliani parlano una lingua scorretta. Io se devo dire la verità, anche sono nata qui mi piace la lingua italiana. Io volevo nascere a Firenze no a partinico ma il mio destino è stato questo. Io vorrei parlare l’italiano ma purtroppo non ci riesco, e io credo che non ci riuscirò mai, perché abbiamo sempre l’accento siciliano.
Ciò che emerge dai testi spontanei prodotti dai bambini è un tasso crescente di dialettofobia man mano che si procede da Nord verso Sud e la Sicilia.
L’origine dei dialetti
Così come le altre lingue neolatine (dette anche romanze), l’italiano e i dialetti che si parlano nella Penisola e nelle isole trovano la loro origine nel latino parlato. Tuttavia non è sufficiente riferirsi al latino, perché nei vasti territori dell’Impero romano vi erano diverse differenze dovute soprattutto al contatto del latino con le lingue parlate dalle popolazioni dei territori conquistati, definite “lingue di sostrato”.
Nell’Italia dell’Alto Medioevo, poi, si verificò una sempre più netta divergenza tra lingua scritta e lingua parlata: il latino venne relegato a un uso scritto, mentre nel parlato si svilupparono una pluralità di idiomi regionali e locali, i cosiddetti volgari italiani.
Alle soglie del secondo millennio si iniziò a utilizzare il volgare anche per lo scritto, all’inizio per necessità pratiche (dichiarazioni testimoniali, formule di confessione, libri di conti, ecc), poi anche per fini letterari.
Dai mille dialetti all’unificazione linguistica dell’Italia
Quando il volgare fiorentino si affermò come componente fondamentale della lingua nazionale, tutti gli altri volgari retrocessero alla condizione di dialetti.
Quindi si può parlare di dialetti d’Italia solo dopo che il toscano si afferma come lingua nazionale.
Questa lingua fu usata inizialmente da un numero molto ristretto di persone, e solo per gli usi scritti, mentre i mille dialetti d’Italia costituirono lo strumento comunicativo di tutti i giorni.
Questa situazione rimase pressoché immutata fino all’unificazione politica. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento solo una piccolissima parte degli italiani conosceva la lingua nazionale (circa il 5% della popolazione). Fu allora che iniziò la lenta unificazione linguistica dell’Italia, favorita da diversi fattori, nel XX secolo: la progressiva estensione dell’obbligo scolastico, le migrazioni interne dal Sud al Nord e dalla campagna alla città, il servizio militare obbligatorio e, a partire dalla metà del secolo, l’avvento del cinema, della radio e della televisione.
Solo nel dopoguerra, però, si registra un più rapido declino dei dialetti, relegati ai rapporti interfamiliari o amicali, soprattutto nei piccoli centri, e al tempo stesso si verifica una differenziazione generazionale (il dialetto viene parlato più dagli anziani che dai giovani).
È poi sempre più frequento l’uso alterno di dialetto e lingua nella conversazione e un lento processo di italianizzazione dei dialetti.
Oggi la maggior parte della popolazione italiana è in grado di esprimersi più o meno bene sia in italiano che in dialetto.
Si calcola che circa il 40% della popolazione italiana sia in grado di combinare i due codici, anche da parte di soggetti con un buon livello di istruzione. Tale uso alternante, “mescolato”, può rivelarsi più frequente a seconda delle situazioni comunicative.
Secondo le indagini Istat, nell’intervallo compreso tra penultima e l’ultima indagine (2006-2012), l’uso del dialetto è regredito vistosamente come codice esclusivo, ma meno vistosamente come codice combinato con l’italiano.
Sul piano linguistico, si percepisce una graduale italianizzazione dei dialetti con il contemporaneo arricchimento della lingua di tratti dialettali (anche nelle esperienze letterarie). Nel già citato Gradit sono circa ottomila le parole ormai diffuse nazionalmente e però marcate come dialettali o regionali (esempi: battona, minchia, sfizio, inciucio, jella, pirla, abbuffarsi).
Classificazioni
Esistono diversi schemi classificatori, messi a punto sin dalla fine dell’Ottocento e poi nel Novecento.
Ma il primo vero tentativo in assoluto è quello di Dante Alighieri agli inizi del XIV secolo: nel De vulgari eloquentia Dante distingue quattordici volgari disposti alla destra e alla sinistra del giogo dell’Appennino.
Lo schema classificatorio dei dialetti d’Italia più recente e condiviso, e che offre un quadro assai dettagliato, è quello proposto da Giovan Battista Pellegrini in Carta dei dialetti d’Italia, un saggio del 1977. Vengono individuate cinque grandi aree dialettali:
1. Dialetti settentrionali
2. Dialetti friulani
3. Dialetti toscani
4. Dialetti centro-meridionali
5. Dialetti logudoresi-campidanesi
All’interno di questi grandi comparti vengono operate ulteriori distinzioni, in un quadro estremamente articolato.
Schemi così ampi e dettagliati vanno però assunti in maniera flessibile: la condizione delle tante varietà è infatti estremamente fluida e mutevole, ed è perciò assai difficile farla rientrare in schemi troppo rigidi.
Ragazzi e dialetto
Per i giovani il dialetto, nella maggior parte dei casi, non si configura come lingua materna. Spesso un ruolo importante è esercitato dai nonni, dal gruppo dei pari, e dall’ambiente circostante.
All’interno della lingua dei giovani (detta “linguaggio giovanile” o giovanilese), la componente dialettale costituisce uno dei principali ingredienti, assieme a quelli tratti dalle lingue straniere, soprattutto l’inglese, dal mondo della pubblicità, della televisione o di Youtube, dal linguaggio di Internet, dai gerghi.
Per quanto riguarda il dialetto, ritroviamo forme di ampia circolazione e di lunga durata come sgamare, “sorprendere, cogliere sul fatto”, e arrapare, “eccitare sessualmente”, che hanno origine nel romanesco e si sono poi diffuse un po’ in tutta Italia attraverso i media. Più recenti sono i casi di scialla, “stai tranquillo, calmati”, di probabile origine genovese, e del romanesco daje.
Come ha notato Carla Marcato, in una società ormai sostanzialmente italofona i fenomeni di “risorgenze” dialettali e i “pezzi” di lingua tipici della dialettalità giovanile non significano «recupero o rivalutazione della dialettalità del passato (o quantomeno è eccessivo parlarne in questi termini), ma sono utilizzati in quanto rappresentano uno scarto rispetto alla varietà degli adulti e all’uso linguistico comune, o anche per la notevole carica di emotività di parole spesso intraducibili».
Come ha notato Lorenzo Coveri, in molti casi il linguaggio giovanile «ha sostituito, nelle funzioni affettive, espressive, scherzose, il dialetto, per cui non c’è da stupirsi che si sia affermato soprattutto nelle regioni in cui il dialetto è in regresso (regioni del Nord-Ovest e, per ragioni diverse, Toscana e Roma). Anche laddove il dialetto dimostra maggiore tenuta (Italia meridionale, regioni del Nord-Est), l’uso che ne viene fatto dai giovani non è integrale, ma gergalistico e “citazionistico”, come “macchia” (a livello di singole parole o di code mixing o di code switching) tendente a sottolineare lo scarto rispetto alla lingua comune».
Una nuova dialettalità
Così il suo impiego combinato con l’italiano sembra costituire la principale tendenza del panorama sociolinguistico odierno, e la sua principale chance di vita futura.
Una “nuova dialettalità”, alla quale sono esposti anzitutto i giovani.
Questo articolo riprende e sintetizza i contenuti del volume La ricchezza dei dialetti, di Giovanni Ruffino e Roberto Sottile
- On 19 Settembre 2018