
Dialogare bad news: esperienze dal fronte
Intervista a Francesco Leone, direttore dell’oncologia all’ospedale di Biella
di Alessandro Lucchini
L’ho avuto in aula tre giorni di fila, all’ospedale di Biella, in un corso su tecniche di ascolto e comunicazione di cattive notizie.
Dico “l’ho avuto”, mal celando il narcisismo del formatore. Eppure l’avevo capito al volo che persona è: di quelle che ti chiedi subito “non è meglio che qui in cattedra vieni tu, e io mi metto lì e ascolto?”.
Beh, poi il mio corso l’ho tenuto. Però gli ho chiesto questa intervista, per raccogliere la sua esperienza sul dare cattive notizie in ambito medico. Per chi preferisce il formato video, eccolo nella videointervista con Patrizia Tempia, responsabile della psicologia clinica dell’ospedale di Biella.
Francesco Leone dirige la struttura complessa di oncologia all’ospedale di Biella. È stato ricercatore dell’università di Torino, responsabile del day hospital multidisciplinare in convenzione con l’IRCCS di Candiolo, coordinatore di progetti di ricerca clinica nel campo dei tumori gastrointestinali pubblicati su diverse riviste scientifiche internazionali.
Francesco, che cos’hai imparato in questi anni di lavoro a contatto con una malattia tra le più terribili?
Ho imparato che si può e si deve affrontare. Che la connotazione di malattia terribile deriva principalmente dalla paura e dall’incertezza. Nostro compito allora è prima di tutto fare chiarezza e dare risposte ai pazienti e ai loro famigliari. Anche una prognosi infausta può essere comunicata e accettata. Ciò che lascia senza conforto è il non sapere. Essere vicini, dare spiegazioni, indicare un percorso, degli obiettivi porta fiducia e speranza.
Fiducia, appunto. Come gestisci la relazione tra fiducia e incertezza? Come riesci – quando riesci – a trasmettere fiducia e positività al paziente, anche se tu la sicurezza non ce l’hai?
L’incertezza è prima di tutto nostra, perché ogni caso ha la sua storia. Il momento di maggiore incertezza è certamente l’inizio, perché tutto può succedere. Se un paziente mi chiede subito come andrà a finire rispondo sinceramente che non posso saperlo, perché troppe sono le variabili: l’aggressività e la velocità della malattia, la sensibilità alle terapie, la tollerabilità. Lo invito però a rifarmi la domanda dopo qualche mese quando una parte di queste domande avranno una risposta. E mi impegno a fare con lui un bilancio per capire come stiamo procedendo. Un messaggio positivo si può sempre trovare, e su quello dobbiamo portare l’attenzione: sapere esattamente quale sia la diagnosi e quale la migliore terapia è un messaggio positivo; avere un’alternativa di fronte a un fallimento è un messaggio positivo; avere delle cure per far sentire meglio una persona anche quando la malattia non è stata dominata è un messaggio positivo. In ogni caso, danno fiducia una figura di riferimento che ti guida, la certezza di poter fare domande e di essere ascoltati, la relazione percepita come contatto umano in senso stretto.
Quali sono le reazioni più comuni dei pazienti alla bad news?
Possono essere le più varie e vanno dalla negazione alla piena accettazione. Solitamente dipendono dalla predisposizione individuale, ma molto conta anche l’esperienza precedente. Nelle lunghe storie di malattia, attraversate da ripetuti cambi di terapia e di strategia, spesso subentra l’illusione che ci sarà sempre qualcosa da fare. Purtroppo arriva il giorno in cui il medico non ha nuove proposte e fra le bad news questa è una delle peggiori. D’altra parte non avrebbe senso anticipare la tragedia. Non possiamo dare una speranza e toglierla immediatamente, disilludere il paziente che si aggrappa a una possibilità. Per attenuare questa situazione cerco di non dare obiettivi irrealistici. Spesso coi pazienti mi soffermo a ridimensionare queste aspettative, se si aspettano di guarire o di concludere le terapie nel giro di 6 mesi, o di fare un intervento risolutivo quando questi esiti non saranno possibili. E cerco di spiegare che se inseguiamo un obiettivo non raggiungibile saremo delusi anche per i buoni risultati che raggiungeremo: una malattia che si rimpicciolisce, un periodo di stabilità che potrebbe concedere una pausa, una buona qualità di vita nonostante tutto.
Anche il medico, poi, ha le sue emozioni, giusto?
Il coinvolgimento emotivo c’è sempre. Qualche volta può avere un impatto sulla comunicazione. Se il paziente è giovane, o se gli sei particolarmente affezionato, puoi correre il rischio di non riuscire a comunicare pienamente le bad news. Di qui derivano i prolungamenti eccessivi delle cure (non sapersi fermare) o l’utilizzo di protocolli di dubbia utilità (non saper dire che non ci sono altre cure). Chiedere aiuto in questi casi può essere una soluzione. Gestire il colloquio in due medici, o un medico e un infermiere, può permetterti di sentire di più “i piedi a terra”, di essere più professionale e avere un supporto o un rinforzo.
Ecco, medici e infermieri: com’è ripartita – o come dovrebbe/potrebbe esserlo, secondo la tua esperienza – la responsabilità della comunicazione?
Gli snodi decisionali principali, incluse le scelte terapeutiche, vengono sempre comunicati dal medico. Tenere gli ambiti medici e infermieristici troppo distinti indubbiamente non ci fa bene. Il punto di vista dell’infermiere, con tutte le informazioni che riceve durante le terapie, potrebbe portare un contributo, fino a modificare alcune decisioni mediche. Purtroppo una maggiore interazione fra le professioni richiederebbe una diversa organizzazione. Conosco esperienze positive che si possono prender a modello.
Tu lavori a strettissimo contatto con gli psicologi (vedi videointervista congiunta con Patrizia Tempia). Come funziona la collaborazione? Quali sono le linee di confine o di sovrapposizione? Quanto è utile che s’intreccino le competenze e le sensibilità?
Per me è un’esperienza nuova. Nel mio precedente contesto di lavoro i contatti con gli psicologi erano molto più limitati. A Biella ho scoperto una collaborazione decisamente proficua. Non ci sono linee di confine. Sceglie il paziente se e quando includere lo psicologo nel percorso di cura. La sovrapposizione non è un problema e viene data per scontata, ma per evitare confusioni è bene che medici e psicologi si parlino e si confrontino. Il paziente è seguito meglio quando i professionisti interagiscono fra loro.
Come vivi in genere la presenza e il ruolo dei famigliari?
I famigliari sono fondamentali per la vicinanza che possono esprimere e per l’aiuto fattivo che possono dare al paziente. È importante far capire loro che nel processo di cura stanno dalla parte dei curanti e non dell’ammalato. Devono essere d’aiuto, anche se a loro volta vanno aiutati per quello che stanno vivendo. Cerco di svolgere i colloqui in presenza di uno o due famigliari (di più sono troppi), e di limitare al massimo i colloqui coi famigliari in assenza dei pazienti, per evitare che si crei la sensazione che le verità siano due o molte e non si riescano a gestire.
Venendo al linguaggio, hai potuto farti una tua personale lista delle parole da usare e da non usare?
Sono da evitare tutti i tecnicismi e le espressioni in medichese, perché dicono e non dicono per loro stessa natura. Dobbiamo impegnarci a decostruire un linguaggio in buona parte inventato per tenere le distanze tra medici e pazienti. Cerco di spiegare un referto prima che il paziente lo legga. Quando non posso evitarlo, succede invariabilmente che il paziente mi dica che aveva capito altro, molte volte anche il contrario di quanto vi si descrivesse.
Cerco di usare parole che diano il senso positivo dell’azione: prendere in carico, occuparsi di, affrontare, cercar di ottenere. Per mio gusto personale evito le metafore belliche che indichino il paziente come soggetto attivo: combattere, lottare, vincere ecc. perché sono convinto che tutti i pazienti vogliano guarire, e se non ci riescono non è per mancanza di impegno personale. Allo stesso tempo, non riesco a fare a meno di armi terapeutiche, bersagli, strategie, nemici e alleati. Ogni tanto mi capita di appellarmi anche a cose che non esistono, come la fortuna, e quando succede cerco di farci dell’ironia, in modo che il paziente capisca che siamo scienziati ma non sappiamo tutto.
Parliamo del valore della formazione: qual è la tua opinione/esperienza nell’eterno dibattito tra attitudine personale e capacità migliorabili con l’esercizio?
Sento un grande bisogno di formazione. Personale e di équipe. I corsi di laurea e di specializzazione sono tremendamente carenti di aspetti formativi sulla comunicazione, sull’empatia, sull’umanizzazione delle cure. Quasi sempre si impara sul campo ma molto dipende dal contesto, dalle esperienze, dai compagni di viaggio che si incontrano. Penso che si possa e si debba strutturare meglio la crescita professionale in campo medico prevedendo specifici interventi formativi su questi aspetti
Per concludere, un consiglio, semplice?
La cosa più semplice che mi viene in mente è “contaminazione”. In attesa che il percorso formativo si arricchisca di contributi specifici sullo sviluppo delle capacità comunicative dovremmo iniziare a vedere il valore portato dall’allineare la propria professionalità con quella delle altre figure che svolgono la propria attività a fianco dei pazienti e delle loro famiglie. Per un obiettivo comune: la salute e il benessere di persone bisognose.
Per approfondire:
– Dialogare Bad News > abstract gratuito, di Chiara Lucchini, Alessandro Lucchini, Lorenzo Carpané, Paolo Carmassi, Centopagine Editore (abstract gratuito)
– Il linguaggio della salute > abstract gratuito, di Alessandro Lucchini, Centopagine Editore
– Cure and Care Coaching > abstract gratuito, di Giuliano Mari, Centopagine Editore
– Prove di A.S.CO.L.T.O.: 7 allenamenti per ascoltare in modo efficace, TED talk di Alessandro Lucchini (15 minuti)
- On 27 Febbraio 2020