Il curioso giornalista
di Chiara Lucchini
Intervista a Mario Nanni: il suo libro è utile a chiunque lavori con la scrittura
Sarà l’esperienza che ha alle spalle, che te lo fanno guardare con una certa riverenza.
Sarà che quando racconta, senti che lì c’è la storia, anzi la testimonianza dall’interno, di un mestiere oggi ritenuto quasi inarrivabile.
Sarà che l’ho conosciuto durante un corso di comunicazione, e lui aveva scelto di stare seduto vicino a me, ad ascoltare, non in cattedra a insegnare.
Sarà che l’uscita del suo nuovo libro, Il curioso giornalista. Come vestire le notizie, promette fin dal titolo una riflessione sull’identità del giornalista e sull’uso degli attrezzi del mestiere, e quindi sia sull’essere sia sul fare.
Cronista parlamentare dal 1977, Mario Nanni ha seguito l’attività di Senato e Camera in vari ruoli, fino a diventare capo della redazione politica dell’Ansa. L’Ansa, sì, la redazione delle redazioni. Quella del tutta la notizia nella prima riga. Una vita ad analizzare e raccontare le storie dei palazzi, il cui insegnamento è oggi una traccia per i colleghi più giovani, e per chiunque viva e lavori con la scrittura.
Insomma, intervistare il maestro delle interviste, un filo di ansia da prestazione me l’ha data, altro che. Questo è ciò che ne è uscito.
è madre della scienza.
Se uno non è curioso non riesce nemmeno
a capire dove sta la notizia.
-Mario, partiamo dal titolo del tuo nuovo libro: “Il curioso giornalista”. Che significa, nello specifico professionale, “curioso”?
Questo titolo è venuto dopo una lunga ricerca. Io all’Ansa ero considerato bravo nel fare i titoli, infatti nel libro dedico anche un capitolo a come fare i titoli. Però quando si è trattato di scegliere quello per il libro, non mi veniva spontaneo. Per cui alla fine, ripensandoci, ho trovato “Il curioso giornalista”, e non “Il giornalista curioso”. Perché, secondo me, la curiosità – e non a caso dedico il primo capitolo alla curiosità – è un prerequisito, una dote fondamentale del giornalista. Senza la curiosità non si può fare il giornalista. La curiosità è madre della conoscenza, è madre della scienza. Se uno non è curioso non riesce nemmeno a capire dove sta la notizia.
Perché “Il curioso giornalista” e non “Il giornalista curioso”? Per mettere proprio in evidenza che io, in primis, parto proprio dalla curiosità. Non a caso sta nel primo capitolo. La curiosità è il “carburante” del giornalista, è una “bussola”, una “leva” importante per potersi orientare e scoprire la realtà.
Faccio l’esempio di Socrate. Non sembri sproporzionato né inopportuno l’accostamento del giornalista a Socrate. Cosa faceva Socrate? Usciva di casa, interrogava le persone e faceva domande sul loro mestiere. E poi, piano piano, faceva domande sulla vita, sul significato dell’esistenza, fino a domande di carattere universale. Questa curiosità poi gli è costata la vita. Non dico che i giornalisti debbano fare come Socrate, ma ci sono stati alcuni che hanno anche perso la vita, per la curiosità di andare a scoprire. Si parte dalla curiosità, dalla sete di conoscenza. Penso al giornalismo d’inchiesta, al giornalismo di guerra.
– Veniamo al sottotitolo: “come vestire le notizie”. Perché le notizie vanno “vestite”?
È un concetto che ho mutuato da un grande giornalista, Giulio Anselmi. Vestire le notizie non significa mascherarle, renderle irriconoscibili. Non significa alterarle o truccarle. Io sostengo, come sosteneva Anselmi, che la notizia di per sé ha un interesse, ma relativo: la notizia va arricchita. Come nasce la notizia? Che sviluppo e che conseguenze può avere? Perché questa notizia è uscita? E poi va messa nel contesto storico, sociale ed economico. Va inquadrata. Tutto questo è un addobbo della notizia, è un vestire la notizia. La notizia va collocata nella sua storicità e arricchita di tutto questo corredo che serve per arricchirla e per svilupparla.
– Perché la scelta di ricorrere, nel libro, alla forma del dialogo?
Nel secondo capitolo, dove comincio a raccontare le carenze riscontrate all’esame di Stato nei candidati che si sono presentati, ho scelto proprio la forma del dialogo. Da laureato in filosofia e da abilitato in storia e filosofia, io considero il dialogo la forma suprema di ricerca e quindi di arrivo a una conoscenza e a un risultato. Un conto è dire qual è stato l’errore commesso, un altro conto è raccontarlo come una sorta di sceneggiatura teatrale, a domande e risposte. Quindi il dialogo, secondo me, è più efficace per far rivivere la scena dell’esame.
– Quando dici che questo libro «non intende mettere alla berlina i candidati all’esame d’idoneità professionale giornalistica per le prove giudicate insufficienti, per le brutte figure, per gli errori» generi subito curiosità: quali sono le più diffuse brutte figure, gli errori madornali?
Gli errori più madornali sono anzitutto nel campo della storia. Per esempio via Rasella, Fosse Ardeatine. Spesso i candidati non sanno nemmeno di cosa si sta parlando. Un candidato, alla domanda su quando è finito il fascismo, ha risposto che è finito negli anni Cinquanta.
Per quanto riguarda l’italiano, in un capitolo dico che è l’italiano la vera lingua straniera. Apostrofi sbagliate, doppie consonanti messe a caso. Cose così.
E poi la conoscenza della Costituzione: ignoranza quasi totale. Confondono un articolo con un altro, non ne conoscono i firmatari.
Perché ho detto che non voglio metterli alla berlina? Io dico il peccato, non il peccatore. E così prevengo anche un’obiezione che si può fare a questo tipo di esame, ovvero il fare domande nozionistiche. Domande nozionistiche no. Però ricordo che in Italia è stata fatta per anni una battaglia contro l’insegnamento e l’apprendimento nozionistico. Ma poi è successo che, ammazzato il nozionismo, hanno ammazzato anche la nozione. Mentre la nozione è importante.
Ci sono delle cronache in cui il giornalista
sembra più un tifoso che un cronista.
– Parli di un “dover essere” e di un “dover fare” per chi voglia intraprendere il mestiere di giornalista. In sintesi, di che si tratta?
In questo libro ci sono diverse proposte. Ho evitato un tono cattedratico. Nella mia esperienza ho fatto anch’io degli errori. Quindi nessun tono paternalistico. È una testimonianza di alcune questioni per come le ho vissute.
Quindi un “dover fare” e un “dover essere”: vediamo per esempio la deontologia. Il giornalista dev’essere testimone del proprio tempo, deve raccontare la verità. Predico anche l’impassibilità: il giornalista non deve fare il tifo. Faccio l’esempio del giornalista sportivo: ci sono delle cronache in cui il giornalista sembra più un tifoso che un cronista. Dà del tu all’allenatore e ai giocatori. Mi chiedo che cosa succederebbe se un altro giornalista desse del tu a un ministro quando fa un’intervista. Il giornalista dovrebbe stare sempre al di qua e non al di là: non deve essere né pro né contro, deve raccontare le cose come stanno.
– Dici che per affrontare la prova d’esame da giornalista, quella scritta e poi quella orale, non basta studiare libri su libri, serve soprattutto capire “come” si deve studiare. E questo forse vale per la vita. Alcuni consigli pratici su come si deve studiare?
Ci sono casi di candidati che hanno fatto l’esame due o anche tre volte. Eppure dicono di aver studiato tanti libri. Allora forse c’è qualcosa che non va. Non si tratta di quanti libri studiare, ma di come studiarli. Pongo come centrale la questione del metodo di studio. E a questo proposito dico che bisogna fare quello che dovrebbero fare gli studenti universitari, cioè le schede. Ma anche le schede, bisogna saperle fare. Chi schematizza i vari argomenti che deve studiare, mentre li schematizza già li impara, la memoria già immagazzina. E qui faccio mio un pensiero di Gianbattista Vico, che diceva “vero e fatto si convertono a vicenda”. Cioè si imparano le cose che si fanno, quasi manualmente. Quindi è centrale il metodo. Perché se uno è stato bocciato tre volte e dice che ha studiato tanto, evidentemente non ha studiato con un certo metodo.
– «La certezza induce alla pigrizia, all’adagiarsi. Il dubbio stimola, scuote, tiene svegli.» Così dici nell’introduzione. Frase lapidaria. La commentiamo, nel contesto della scrittura giornalistica?
Amo questo mestiere. Ma guardo al giornalismo anche con un occhio critico, quindi anche autocritico. Perché il giornalista ha tra i suoi difetti quello di essere pigro. Oggi il “copia e incolla” è diventato quasi un metodo di lavoro. O peggio, “taglia e incolla”.
Faccio una proposta citando un grande giornalista di Repubblica, Filippo Ceccarelli, che è famoso perché ha uno sterminato archivio. E consiglio ai candidati e ai giornalisti di prepararsi un proprio archivio. A cosa serve l’archivio, se c’è Google e la rete? È un’altra cosa, perché quello è un archivio personalizzato, fatto di cose che sono successe e che sono state vissute di persona, di ritagli di giornale che non si trovano su Google. E quindi, quando uno poi deve scrivere, attinge a queste cartelle, con il risultato che il pezzo che scrivi è un pezzo personale, mentre altri pezzi sono comuni e non risaltano per originalità.
l giornalista non dev’essere timido,
deve accogliere questa sfida
e si può salvare solo con la credibilità.
– Come si coniuga la cultura del dubbio con il tema delle fake news, ossia della terribile facilità, nella comunicazione contemporanea, di diffondere stupidaggini e accreditarle nell’opinione pubblica come veritiere, o almeno, verosimili?
Parlo delle fake news nella parte conclusiva del libro. Il giornalismo si trova oggi davanti a nuove sfide e pericoli che vengono dalla rete. Questa rete che non va demonizzata, ma neppure mitizzata. La rete è una giungla. Riporto il pensiero del presidente attuale dell’Ordine dei giornalisti, Carlo Verna: la rete è un mare di libertà, ma è anche un mare procelloso perché impazzano anche le fake news. Il giornalista si trova davanti a questi pericoli. Come fa a orientarsi? Ci vuole molto senso critico e bisogna fare una cosa che il giornalista spesso non fa, cioè verificare e controllare sempre prima di farsi portatore o veicolo di queste notizie che poi si rivelano non veritiere. Come si può difendere il giornalista da questo mare magnum dove stanno dominando le fake news, che hanno anche un peso politico e orientano le scelte e i consumi delle persone? Il giornalista non dev’essere timido, deve accogliere questa sfida e si può salvare solo con la credibilità. Questa è l’arma vincente del giornalismo oggi. In questo universo dove è difficile distinguere la notizia buona dalla notizia falsa, il giornalista si deve far conoscere e riconoscere per la sua cifra di verità e di credibilità.
– Quali sono i tuoi consigli fondamentali per una buona intervista?
Dedico un capitolo proprio alle interviste. Faccio l’esempio di Oriana Fallaci e consiglio ai colleghi di leggere Interviste con la storia, un libro edito da Rizzoli, in cui lei intervista personaggi sia italiani sia internazionali di grande livello.
Innanzitutto ci sono interviste scritte e interviste fatte a voce. Le prime sono più formali, le seconde sono sotto forma di dialogo.
Se si tratta di un certo argomento, consiglio di andare a vedere che cosa il personaggio ha detto su quell’argomento, quali sono le sue ultime posizioni su quel tema. Poi ci si prepara una scaletta di domande. Se poi l’interlocutore non risponde, non bisogna accontentarsi e passare alla seconda domanda: bisogna incalzarlo, rispettosamente, ma bisogna incalzarlo, riformulando la domanda in un modo più semplice, in modo che non possa evitare di rispondere.
E poi ci sono interviste in cui, mentre l’interlocutore risponde, può nascere una seconda domanda, quindi la scaletta si arricchisce.
C’è una bella definizione di Longanesi, che dice che l’intervista è “un articolo rubato”. Allora io domando: rubato dall’intervistato all’intervistatore o dall’intervistatore all’intervistato? In realtà l’intervista è un lavoro a due. L’intervistatore non è un porgitore di domande, ma è un cooperatore. L’intervista è un prodotto che si fa in due.
Per una buona intervista bisogna anzitutto prepararsi. Le interviste più belle sono quelle che portano nuovi risultati di conoscenza rispetto a prima, cioè devono contenere una notizia.
– Definisci la professione giornalistica come un “ mestiere”, ossia un prodotto di alto artigianato. In che senso?
Sì. Chiamarla “professione” non rende l’idea. Mi piace di più parlare di “mestiere”. Il giornalismo può anche assumere una veste artistica: è un fare, è un conoscere. E in questo fare e conoscere ci sono dei prodotti che possono assumere un valore estetico, un valore di alto artigianato.
Anche se uno studia un fatto
di duecento anni fa, con il pensiero
va ai fatti del proprio tempo.
– Per chiudere, Mario, torniamo a uno dei tuoi fili conduttori: lo studio della storia per capire il proprio tempo. La storia è davvero maestra di vita?
Parto da lontano, e faccio mio l’appello di un grande poeta dell’Ottocento, Ugo Foscolo, che nella famosa prolusione all’Università di Pavia disse: “Italiani, vi esorto alle storie”. Lui parlava al plurale. Io riprendo questo appello rivolto ai giovani, non solo ai candidati all’esame di Stato, ma anche ai giovani universitari che studiano la storia in modo forse un po’ approssimativo. Al liceo se va bene si arriva alla seconda guerra mondiale, ma sono passati settant’anni. Ci sono enormi buchi neri.
Se non si conosce la storia, se non si ha un inquadramento storico degli avvenimenti, non si può capire il presente. La storia è un filo rosso. Conoscere il passato per capire il presente.
E a questo proposito cito il pensiero di Benedetto Croce, secondo il quale la storia è sempre storia contemporanea. Anche se uno studia un fatto di duecento anni fa, con il pensiero va ai fatti del proprio tempo, per trovare collegamenti e fare similitudini. Non è un astratto studio del passato, ma inevitabilmente c’è un rimando, uno specchio al presente. Lo studio della storia ti consente di orientarti, altrimenti stai in una nebbia e non sai dove devi andare. La storia è il filo di Arianna che ti aiuta a non perderti nel labirinto del tempo che vivi.
- On 25 Febbraio 2018