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MAMA: MAnagement e MAieutica

Un decalogo per favorire le domande dei collaboratori

di Alessandro Lucchini

Sono stato invitato a un incontro per una comunità di manager, dal titolo “Q&A – Favorire le domande dei collaboratori”. È stata l’occasione per riflettere sia sul perché è così impegnativo fare buone domande, sia sul come ottenere buone domande da chi lavora con noi. In pratica, su come fare MaMa – management & maieutica[1].
Su come creare un clima in cui le persone si sentano libere di chiedere, se non capiscono. Insomma come fare perché il Q&A non sia un’inquisizione, o una seccatura, ma il più naturale strumento di conoscenza e di crescita.

Ecco il succo di quei pensieri, in dieci punti:

  1. Fare domande (go first)
  2. Ascoltare!
  3. Rispondere, sempre
  4. Rispondere bene, ma non troppo
  5. Dosare precisione e vaghezza nei brief
  6. Considerare tutte le domande collaborative
  7. Scegliere bene il contesto (tempo/spazio)
  8. Maneggiare il repertorio del questioning
  9. Pensare laterale, non verticale
  10. Usare strumenti interattivi (più lavagne, meno slide)

Cominciamo dal come NON favorirle

Sarebbe bene cominciare, per la verità  dal come NON favorire le domande. È la tecnica del come peggiorare. Quali sono le scelte che disincentivano le domande da parte di un gruppo, durante una riunione, in presenza o in remoto, o anche nella normale routine di lavoro?

Tra le più diffuse:

1) alla fine del mio discorso, guardo la platea e dico “domande”? (tradotto: il mio l’ho fatto, adesso sto qui ancora un attimo per il solito rito, ma capite bene che me ne andrei volentieri a casa)
2) ricorro alla tecnologia: raccolgo le domande, con vari sistemi di poll, le seleziono, e rispondo a quelle che trovo adeguate al mio messaggio
3) mi metto d’accordo prima con un paio di partecipanti, che mi facciano una domanda a testa, così rompono il ghiaccio e magari arrivano altre domande, o altrimenti ci fermiamo a quelle lì e abbiamo risolto il problema delle domande.

Nessuna di queste tecniche funziona, alla lunga. Sì, può funzionare, in via sporadica, ma non è da contarci come strategia. Le domande vengono se abbiamo creato un clima di comunicazione aperto, continuo, curioso, formale e insieme informale, trasparente.

Ora vediamo i dieci spunti.

  1. Fare domande! (go first)

If you want to create an emotion, go first. Vacci prima tu in quell’emozione. Sii allegro, se vuoi rallegrarli. Fa’ domande, se vuoi riceverne. È il vecchio principio della reciprocità. Funziona anche qui. Magari scegliendo bene il momento: dopo una pausa caffè o pranzo, dove si abbassano un po’ le barriere formali.
Ma magari anche nei primi minuti della riunione: rivolgere domande alla platea sull’aspettativa, sul risultato atteso, sui dubbi che sono emersi dall’incontro precedente, può aiutare a “rompere la quarta parete”, come si dice in teatro, o a “bucare lo schermo”, se pensiamo alle tante riunioni online.
Ricordo un mio professore che iniziò un seminario di tre giorni davanti a 300 allievi dicendo solo tre parole: «Hi, tell me». E poi zitto. Silenzio. Lunghissimo. Sguardi sconcertati. Poi rumorìo in sala (ti abbiamo già pagato una biglietto importante, tesoro, sarebbe carino che iniziassi tu a dirci qualcosa). E lui sempre zitto. Dopo un altro po’ aggiunse: «Ok, prendetevi 5 minuti, scrivete le domande che volete farmi, poi partiamo con il Q&A». Messaggio ricevuto: ehi, siete tutti professionisti, volete che vi proietti le slide con l’abc? Ditemi che cosa v’interessa, e io vi rispondo.
Partì una gara per la domanda più acuta, specifica e profonda. E il prof gestì 20 ore di seminario solo a domande-risposte. Niente slide, niente video, niente role playing.
Ci vuole coraggio, e padronanza dell’argomento, sì. Ma che regalo è per la platea, se il relatore si mette a disposizione, con un atteggiamento tipo “come potete aiutarmi ad aiutarvi?”.

  1. Ascoltare

Sul tema dell’ascolto abbiamo detto (pure cantato) e scritto allo sfinimento.
Ma qui c’è da dire ancora qualcosa.
Che LISTEN sia l’anagramma di SILENT è ben più di un gioco linguistico: è un messaggio bello corposo. Quando si ascolta, bisogna stare zitti. Bisogna saper aspettare, lasciare a chi fa la domanda il tempo che occorre, senza annuire, senza fare facce di commento, senza incalzare.
Bisogna ascoltare anche con gli occhi, con le mani, con tutto il corpo. In presenza, e ancora di più a distanza. Postura fisica e anche mentale. Altrimenti il valore della domanda sfuma, perché si tende a riempire di altro il suo significato. È come dire “non sono interessato a vedere il progresso di quella domanda, il percorso di conoscenza che genera”.
La postura è determinante: abilita le domande. Valorizza il momento in cui si decide in modo consapevole di stare in silenzio, senza riempirlo di altro, e dedicarsi in modo totale alla domanda.
Anche quando rispondo, poi, il ritmo è importante: se sono incalzante, sbrigativo, non incoraggio altre domande.
(Certo, non le incoraggio neanche se come risposta faccio un’altra conferenza > vedi punto 4).

  1. Rispondere, sempre

Bruttissimo è ricevere domande e non rispondere. Una risposta può essere anche “non ho ora la risposta, mi preparo e domani ti rispondo”. Un po’ alla maresciallo Rocca: “Datemi 24 ore”.
Molto efficace per rispondere bene alle domande è il metodo, ossia Calibrazione-Ricalco-Guida (qui in una pagina, qui in un breve video). Dove il cuore è proprio sulla calibrazione, ossia sull’ascolto-osservazione-misurazione meticolosa della domanda ricevuta, e solo dopo sull’adeguamento linguistico e poi sulla costruzione vera e propria della risposta.
Attenzione: calibrare, non giudicare. Ricalcare, non scimmiottare.

  1. Rispondere, ma non troppo

Rispondere con calma e rispetto, ma non in modo esaustivo. Non credo che l’esaustività sia un valore, per un leader, dirigente, formatore, o mentore che sia. È utile rispondere in modo da favorire le domande. Dare una risposta che non sia chiusa, categorica, ultimativa, che non sia da punto-a-capo. Che lasci spazio ad altri interventi, che contenga spunti per altri approfondimenti, che coinvolga altre competenze, come a dire: “Non ho la convinzione che questo mio punto di vista sia completo e definitivo”. Uno dei più rigidi freni alle domande è la spocchia dello speaker: se fa quello che ne sa troppe, snocciola numeri, ha già tutte le risposte, inibisce le domande. Anzi, a volte un chiaro “Questo non lo so”, magari seguito da un “tu che ne pensi?”, anziché l’arrampicata sui vetri o il fumo negli occhi, esprime consapevolezza e gentilezza.

  1. Dosare precisione e vaghezza nei brief

In linea con la precedente: dare indicazioni non esageratamente precise, anzi a volte anche un po’ confuse e ambigue. Per far crescere i collaboratori, un/una manager qualche volta può assegnare progetti non troppo definiti, e senza fornire troppe indicazioni. Questa idea della chiarezza e della piena condivisione dell’obiettivo credo sia sopravvalutata.
Se sei manager, può essere utile anche non farti trovare sempre disponibile a risolvere i problemi che via via si manifestano; generare la possibilità che i collaboratori vengano da te in crisi, ci pensino, si/ti facciano delle domande; accettare (anzi, quasi fare in modo) che non sappiano bene da dove partire, o come partire, e che facciano anche qualche fatica a chiedertelo. Se sei poco rassicurante, c’è un momento iniziale di smarrimento, pensano di non aver capito, ma poi sentono la necessità di farti domande. Li metti in condizione di necessità.
Se dai un brief perfetto, te lo realizzano come volevi. Ok. Ma tu ti aspettavi che ci fosse dell’altro. Che ci fosse scoperta, nuova conoscenza. “Quello che mi dici tu ora, io non lo sapevo. Imparo da te”.
Ci sono molte idee in giro: i capi hanno – tra le altre – la responsabilità di raccoglierle.

Parlare anche in modo problematico. Perfino ambiguo. Dove ambiguo non significa insincero. Al contrario: significa qualcosa di più di ciò che appare in superficie. L’ambiguità genera sani dubbi, quindi domande, quindi conoscenza (è un caso se tanto “ambiguo” quanto “dubbio“ hanno dentro il numero due, che è più di uno?)
A volte per ottenere le informazioni più profonde, come spiegava Milton Erickson (qui a pag. 27), conviene essere un po’ vaghi. Non è incoerenza, non è falsità. È apertura. È saper essere sia capo, sia una persona che ascolta fino in fondo. È trovare il secondo fine. Il non detto, quello che non si voleva o non si sapeva dire. Lo metti talmente a suo agio, e te lo dice, proprio con una domanda.

  1. Considerare tutte le domande collaborative

Considerare tutte le domande non come resistenze, ma come spunti di collaborazione. Anche le domande degli “oppositivi” (che poi qualche volta han pure ragione loro). Anche le domande insicure, titubanti, dei “vorrei ma non posso”. C’è quello che comincia a scalpitare col piede, quello che porta la mano davanti bocca, e se riesco a leggere alcuni segnali, posso gestirli in modo accogliente e stimolante.
Il problema è poi anche quanto padroneggio la materia che sto trattando. Più sono concentrato su ciò che devo dire, meno mi concentro sulle persone. Dobbiamo concentrarci un po’ meno sul contenuto, più sulle persone. Da parlare in pubblico a parlare con il pubblico.

E più che stimolare la domanda, è utile mettere le persone nella condizione di essere tranquilli nel porla. I collaboratori fanno domande se sanno che non saranno messi in croce per questo, e che comunque riceveranno una risposta.
Alcuni capi non gradiscono le domande scomode. Ma credo stia nel contratto d’ingaggio di un capo il ricevere domande scomode, e gestirle. E ovviamente nel contratto d’ingaggio di un collaboratore scegliere il momento e il luogo per fare una domanda che sia di aiuto alla squadra.

  1. Scegliere bene il contesto (tempo/spazio)

C’è chi oggi parla di “cronotopo”: il cronos e il topos, tempo e spazio, il contesto.
Ci sono capi che organizzano un giorno o un orario fisso per le domande dei collaboratori. Il question time, come nella politica. Buona idea: il tempo è per tutti la risorsa più importante, quella che può far sentire le persone importanti. E così pure uno spazio fisso, una question room. Oppure non fisso, può essere anche in movimento (tutti conosciamo il beneficio di certe walking conversation > “andiamo a fare due passi, che devo dirti una cosa?”). Ma senza che diventi una rigidità: “oddio devo trovare un paio di domande furbe, che domani c’è il question time”.
A volte anche generare momenti non istituzionali (un viaggio in auto, un aperitivo) crea un contesto più funzionale per le domande. Lì possono uscire domande irrituali, anche poco comode, in uno stato di maggior benessere.

  1. Maneggiare il repertorio del questioning

Questo video sul questioning (24 minuti) snocciola un repertorio di tecniche che accendono la conversazione:

  1. domande vere
  2. domande retoriche
  3. domande esistenziali/maieutiche (> coaching)
  4. domande chiuse
  5. domande aperte
  6. domande dirette
  7. domande indirette (postulati conversazionali)
  8. domande causa-effetto
  9. domande rischiose
  10. domande guidanti
  11. domande a illusione di alternative di risposta (D.I.A.R.)
  12. domande che costruiscono il “processo dei sì” (S.Y.A.Q.)
  13. domande che suggeriscono il “no” (S.N.A.Q.)

Per una trattazione più sistematica, ci si può allenare sul “metamodello” (qui a pagg. 13-26).
Oltre a tutte queste, ci sarebbe sempre anche da distinguere le domande da one-to-many da quelle da one-to-one, ossia quelle che si possono o devono porre in pubblico da quelle che richiedono un contesto più riservato.

  1. Pensare laterale, non verticale

 Stimolare il pensiero laterale può sempre aprire il beneficio di un punto di vista diverso.
“Che cosa vuoi, questo è terreno mio…”
“L’esperto sono io, come ti permetti tu?!”
Sono pensieri, quando non escono addirittura in parole, che poco aiutano il clima per le domande.
Un capo che tende a personalizzare la domanda, che sente accusa o giudizio o invasione di campo (ah, il maschio alfa, spesso presente pure in tante femmine), chiude le porte alla curiosità.
Frasi come Forse non ho capito bene, puoi aiutarmi a capire? (occhio al tono: garbato, non ironico, che non sappia di minaccia, ma di vero interesse) aiutano a scavare insieme un po’ più in là. E spesso il tesoro è nascosto giusto un po’ più là.

  1. Usare strumenti interattivi (più lavagne, meno slide)

Le slide aiutano a descrivere, a scolpire una verità, molto meno a stimolare la discussione (chi volesse fondare con me il partito SLIDELESS si faccia avanti).
Una lavagna a fogli, un documento condiviso su un cloud, una chat, o altri strumenti interattivi che possiamo usare online e che potremo usare bene anche nel new normal (aaaaaargggghhhh), sono più funzionali alle domande.
A volte è utile avere un moderatore/facilitatore per generare domande: il dialogo diventa più veloce, caldo, utile. Sempre che il moderatore non voglia lei/lui primeggiare, ma, appunto, moderare.

Per concludere, breve storia del punto di domanda

Facciamo un esercizio con le mani.
Tieni, prendi in mano la Q, come una materia con uno spessore. Separala nei suoi due segni, il cerchio e la gambetta. Taglia un pezzetto del cerchio, la zona sud-ovest, e appallottola, fino a farne un punto. Poi prendi la gambetta, mettila in verticale, e appoggiale sopra ciò che resta del cerchio. Infine, sotto a tutto, metti la pallina.
Lo vedi? È un punto di domanda.

Il gioco è meno bizzarro di quanto sembra. Nasce così, nel Medioevo, il punto interrogativo. In età antica non si usava. Fu inventato dai monaci copisti, che per indicare l’intonazione interrogativa scrivevano in fondo alle frasi la sigla qo, ossia quaestio (domanda, in latino). Poi, per distinguere la sigla da altre, presero l’abitudine di scrivere le due lettere una sull’altra, stilizzate, trasformando la Q in un ricciolo e la O in un punto.
Ecco il nostro segno: “?”.
Ed ecco un simbolo del nostro lavoro, che è fondato sul fare buone domande e sul rispondere alle domande di clienti, interni o esterni, collaboratori o capi, stakeholder vari. Simbolo di un modo di concepire la comunicazione, e quindi le relazioni interpersonali, in forma dialogica, interattiva, circolare, e non solo lineare.

Sappiamo dal proverbio chi domanda comanda che una leadership efficace può derivare anche dal saper porre buone domande: vale in molti contesti, dal giornalismo all’investigazione, dalla psicoterapia alla vendita, dalla formazione/consulenza al management di qualsiasi livello.
Le buone domande scavano, ricercano, avviano il processo di conoscenza, e poi guidano, indicano, fanno sorgere dubbi, e ancora conoscenza.

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P.S. Ringrazio di cuore

  • Carlo Brozzo, Data Protection Officer in Liguria Digitale
  • Ottavio Corali, Area Manager in FinecoBank
  • Nicola Mancino, AGCS Italy Branch Legal Representative
  • Emanuele Mascherpa, coach e formatore
  • Giorgio Pasolli, Chief Human Resources Officer di Cassa Centrale Banca
  • Carlo Rinaldi, Chief Marketing Officer at Glickon
  • Federica Vincenzotto, Chief Compliance Officer, Intesa Sanpaolo Vita
  • Valerio Zappalà, amministratore delegato e direttore generale di Innolva

per la loro esperienza che mi hanno regalato su questo tema.
Le risposte che mi hanno dato hanno generato un sacco di altre domande. Proprio come speravo.

==========================================================

[1] Tranquilli non esiste ancora bibliografia, è un neologismo inventato or ora. Ma chissà che poi, magari, come ha fatto la mia amica Riccarda con MAAM, diventi un libro, un corso, una linea di pensiero. E poi c’è quel bel suono della margherita 🙂

 

  • On 3 Dicembre 2021
Tags: Alessandro Lucchini
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