Quell`orsetto con un cuore da aggiustare
di Francesco Tamburrino
Non puoi dare spazio alla malattia di prendersi anche la mente. Le deve bastare già il corpo che si è preso.
Edoardo, quattro anni, una malattia al cuore. E una favola per raccontargliela.
Non si può non comunicare. Pensavo a questo il 2 luglio 2000, mentre guidavo sotto un sole cocente da Milano a Napoli.
Avevamo, mia moglie e io, avuto da poche ore notizia della malattia di Edoardo, il nostro secondo figlio.
Dopo gravidanze extrauterine, ovuli fecondati ed espulsi e aborti spontanei, ci eravamo rivolti a un luminare della ginecologia per dare vita ad un’attesa durata nove anni.
Le viste durante la gravidanza erano state numerose, scrupolose e pensavamo sincere. Ora, in quel viaggio di ritorno a casa, lungo e muto, ci tornava alla mente l’espressione sul volto di quel giovane assistente dell’illustre ginecologo. Alla fine dell’esame dell’ascolto del battito del feto, guardava intorno a sé, come alla ricerca di qualcosa o qualcuno a cui chiedere aiuto. Cosa faccio, lo dico o non lo dico quello che ho sentito?
Scelse il silenzio allora, confortato dal supporto del suo superiore.
Ecco, ora che sapevamo, con scientifica meticolosità che il piccolo era nato con la Tetralogia di Fallot, sapevamo anche che quel silenzio era una diagnosi.
Ma come i chilometri passavano, anche i pensieri cambiavano. Era già tempo di pensare a cosa fare, organizzarsi per l’intervento.
Non puoi dare spazio alla malattia di prendersi anche la mente. Le deve bastare già il corpo che si è preso.
La visita della mattina era stata puntuale nel rispetto dei tempi, precisa nell’esposizione dei fatti, efficiente nella programmazione dei passi successivi.
Ma eravamo lontani e soli, dagli affetti e da noi stessi. Mia moglie con lo sguardo assente, lanciato nel vuoto. Io ero già all’organizzazione del giorno dell’intervento…
Decidemmo di vedere altri medici. In gergo, la second opinion. Andammo a Roma, altro ospedale, altra équipe di medici.
Qui una lunga attesa… Un piano interrato senza finestre, un corridoio stretto e vuoto.
La stanza della visita è piccola, in più ci sono cinque persone. Edoardo ha 3 mesi appena, si perde alla vista in quello spazio ristretto.
La diagnosi è confermata. Ma c’è una strana sensazione d’intorno.
Il cardiologo è un illustrissimo americano appena arrivato in Italia. Non parla italiano. È uguale a Babbo Natale: paffuto, barba bianca, occhiali tondi ed espressione simpatica.
Il cardiochirurgo ha poche parole per noi. Ma quelle giuste.
Il bambino è da operare ma, non è urgente. Possiamo attendere i sei mesi.
La malattia è importante ma, non è estrema per lui.
Dovrà operarsi ma, poi sarà un bambino normale.
I loro sguardi sono così carichi di attenzioni che già io pensavo al ricovero. Avevo deciso, Edoardo avrebbe subito l’intervento a Roma.
L’ estate, anche se al mare, è un conto alla rovescia verso quel giorno di settembre in cui avremmo avuto la chiamata.
Milano aveva previsto il 20 settembre. Roma non aveva previsto nulla.
Il 19 ottobre partiamo per Roma. Finalmente, pensavo io. Purtroppo ci siamo, pensava mia moglie.
Avevo la sensazione di aver fatto tutto quello che mi era possibile fare, nel migliore dei modi possibili.
E ora, nulla sarebbe più dipeso da me.
Il giorno prima, come rito, i medici ti parlano, ti spiegano, ti domandano… E c’è il consenso informato.
E c’è da scegliere se donare o meno il timo. E c’è… La pazienza con cui lui, il cardiochirurgo mi spiega cosa farà.
Hanno capito che siamo diversi, mia moglie e io. A me spiegano l’intervento. Con calma, chiarezza: il cardiochirurgo fa dei disegni su un foglio bianco.
Vedo la sua mano disegnare e me la immagino tagliare, aprire, scoprire, cucire.
A mia moglie spiegano l’anestesia. Quasi come se parlarne ne avesse effetto su di lei per indurla a una calma artificiale.
Sono le sette del mattino, è buio. Edoardo passa dalle braccia della mamma a quelle di un infermiere.
Ora sì, c’è il conto alla rovescia. Otto ore, forse più.
L’orologio è lento, e ogni secondo è uno sguardo all’oblò della porta dell’area combinata di sala operatoria e terapia intensiva.
Ore quindici, si apre una porta… Il cardiochirurgo esce. Le sue parole.
Intervento riuscito, nessuna novità rispetto a quanto esaminato, diagnosticato prima. Bene.
La situazione era buona, così ha optato per una manovra sperimentale che è riuscita.
Gli altri chirurghi adesso lo chiuderanno. Io vado di sotto, nella mia stanza, se avete bisogno di me.
Ma sarà vero? Uno che ha passato otto ore su di un cuore da pochi centimetri ora si chiude in una stanza da quattrometriquadri e attende, studia, ascolta?
Lo rivedrò alle cinque del pomeriggio, e ancora lì a spiegarmi con disegni e parole quello che ha fatto. E che io avevo visto altre volte in video in internet.
Lo rivedrò alle otto di sera, quando uscirà dall’ospedale per prendere l’autobus che lo porterà a casa. È la sua giornata, tutto qui.
Sono davvero necessarie le parole per speigare che dottore è?
Cinque giorni e molte attese dopo, Edoardo è fuori. Babbo Natale nel suo poco italiano ma che lo rende ancor più simpatico, ci invita solo a ritornare dopo un mese.
E da allora, è così: ogni sei mesi, Babbo Natale fa progressi in italiano, Edoardo cresce un po’ di più. Oggi ha quattro anni.
La mamma lo controlla istante per istante. Io guardo sempre avanti, e penso alle successive tappe.
E per questo, mi chiedevo, mi chiedo, come lo diremo a Edoardo? Cosa diremo?
I bambini si sa sono imprevedibili. E ti mettono davanti situazioni che ti disarmano nella loro semplicità.
Così, Edoardo, una sera, con il suo sorriso furfante chiede: Mamma, ma io ho il cuore rotto?
La prima risposta è stata il sorriso e l’abbraccio della mamma che conforta. E una favola, che parla di un orsetto che ha un cuore da aggiustare…
Edoardo ascolta, capisce. Lo si vede dallo sguardo. Si gira, abbraccia la sua foca e si addormenta.
- On 21 Settembre 2012