Non riesco a dirtelo. Scrivo
di Alessandro Lucchini
Anche la famiglia è una scena del teatro della salute.
Anche lì i suoi drammi, i suoi dialoghi, i suoi copioni.
A volte vi si scrive ciò che non si può dire. O che non si deve dire.
O che si vorrebbe, ma non si è in grado di dire.
Caterina è secondogenita, secondonata, da gravidanza ricercata, normodecorsa e parto avvenuto a termine, eutocico. Non riferita sofferenza pre-perinatale.
Attaccava così la lettera di dimissione del primo ricovero. Per leggerla Giovanni aspettò di essere seduto, al suo tavolo, dizionari sotto mano. Sapeva che ne avrebbe avuti di motivi per saltare sulla sedia. Il suo corpo era forte, il suo cuore meno. Si trattava di sua figlia.
Già fermo lì, primo e secondo aggettivo: per De Mauro, Treccani, Dir, Devoto-Oli e Zingarelli sono sinonimi. Per il dottore?
Va beh, dannata deformazione professionale. Giovanni era un linguista, ma era prima un padre.
Il testo rievocava la storia clinica: da 6 anni Caterina soffriva di
cefalea intensa, olocranica, in corrispondenza di rialzo febbrile (39-40°) di origine sconosciuta, responsiva al Paracetamolo. In seguito, anche non associata al rialzo febbrile, a localizzazione sovraorbitaria destra della durata di 4-24 h e associata a fotofobia.
Dribblò la bruttezza delle parole e il groviglio dei significati. Aveva la passione di anatomizzare termini e frasi, ma non era momento. Lesse, terapia ed evoluzione clinica:
fotofonofobia, nausea, talora vomito, risveglio notturno, perdita di appetito e peso, amenorrea secondaria, riduzione del tono dell’umore, facile irritabilità, frequenza quotidiana degli attacchi emicranici, costante perdita del peso corporeo…
Fino al ricovero. Esame obiettivo generale:
Cute pallida, sottile, normoelastica, lievemente disidratata, di colorito rosso alle estremità, con presenza di petecchie sul dorso delle mani. Pannicolo adiposo sottocutaneo scarsamente rappresentato. Mucose visibili rosee, non segni di flogosi. Estremità fredde, di colorito rossastro con annesi cutanei sottili e fragili.
Dio bono, un quadro del Caravaggio. All’esame neurologico, poi:
Lucida, ben orientata nel tempo e nello spazio. Nella relazione con l’esaminatore si mostra difesa e controllata. Il tono dell’umore appare deflesso. Non si evidenziano disturbi del pensiero né della senso-percezione. Comprensione verbale adeguata. La dotazione intellettiva appare molto buona.
Dotazione intellettiva molto buona. Eccolo lì. Fosse stata media, quella dotazione intellettiva, non era meglio? Lo avevano pensato un sacco di volte, Giovanni e sua moglie Teresa. Era il loro tarlo, il loro senso di colpa. Tutti quei discorsi su libri, film, viaggi, valori, tutte quelle conversazioni con entrambe le figlie, a volte fino allo sfinimento, pur di non concludere con un “si fa così perché lo dice la mamma”, o il papà. Tutte quelle attività, ginnastica, conservatorio, danza, teatro. Tutti quei voti a scuola, sempre al massimo. Sempre in tensione, sempre in competizione. In sofferenza. Eppure lo sapevano bene, lo avevano letto da tutte le parti, che questa illusione di rapporti perfetti, di dialogo, di famiglia aperta, positiva, senza scontri, porta spesso alle patologie del perfezionismo: mania di porsi obiettivi sempre più alti e inevitabile disperazione al primo fallimento, autocritica costante, esagerata dipendenza dai giudizi positivi, gelosia e confronto limitante con fratelli e sorelle, eccessiva esigenza nelle relazioni e insofferenza per le piccole meschinità umane.
Fosse stata un po’ più media, pensavano quei due cristiani, evviva le serate col telefonino a messaggiare, evviva i rientri in ritardo la notte del sabato, evviva i pantaloni con mezzo culo di fuori e i ferri che bucano la faccia. Pur di stare un po’ meglio dentro. Invece di tutti quei discorsoni, così gratificanti, e ora quell’orribile diagnosi: cefalea-anoressia-depressione.
Nei colloqui terapeutici, infatti, era emersa dall’anima di Caterina
una rappresentazione di sé svalutata, confusa e ambivalente rispetto alla crescita, con difficoltà ad accettare un’immagine corporea proiettata nel futuro, anche in assenza di dismorfofobie. Emergono aspetti di funzionamento ipercontrollato e di falso sé, anche in rapporto con i genitori che conducono a evitare il conflitto. Le relazioni oggettuali appaiono fortemente investite in un’ottica edipica, in particolare nei confronti del padre, e ambivalenti rispetto alla tematica di separazione-individuazione. Le relazioni famigliari, in particolare con la madre, appaiono anch’esse investite in modo ambivalente, con un conflitto di dipendenza-autonomia. È riportata con sofferenza una scarsa attenzione familiare ai suoi bisogni profondi, che, unita a una difficoltà di C. a esprimere le sue esigenze, porta a una difficile comunicazione e a vissuti di scarsa autostima. Tono dell’umore ridotto, inquadrabile in un disturbo distimico.
Certe parole bucano l’anima. Falso sé, evitare il conflitto, ottica edipica, separazione-individuazione, dipendenza-autonomia, scarsa attenzione familiare ai suoi bisogni profondi, disturbo distimico.
Nei colloqui con i genitori è emerso un discreto livello di ansia rispetto alle modificazioni comportamentali connesse alla fase adolescenziale con importanti preoccupazioni rispetto al disturbo alimentare e la tendenza ad assumere condotte di controllo sulla ragazza, contrastanti con i suoi fisiologici movimenti emancipatori, e con conseguente aumento delle situazioni conflittuali intrafamiliari.
Condotte di controllo, situazioni conflittuali… Gli occhi sul foglio, il cuore altrove.
Giovanni era davvero appassionato del linguaggio. Credeva nel potere magico delle parole. Crede nella differenza che una frase può fare nel cervello di chi la riceve se un aggettivo è messo prima o dopo il sostantivo. Se un avverbio è all’inizio, in mezzo o in fondo alla frase. Se la forma è attiva o passiva; se una parola suona duro o morbido. Se il sistema sensoriale che esprimono verbi, sostantivi e aggettivi è la vista, o l’udito, o il tatto…
Insomma credeva nel potere che le parole hanno nel cambiare la percezione di un fatto. Certo, un aggettivo non è una bacchetta magica. Però qualcosa di magico può fare. Magari una piccola magia, poco visibile, ma utile, almeno un po’.
Qui una magia serviva davvero. In tutte le favole c’è un elemento magico. E un po’ di esoterico fa bene al pensiero. C’è chi lo cerca nella religione, chi nello yoga, o nel panteismo, nella chimica emotiva o nel sesto senso. Qualcosa che non sai descrivere con la ragione, ma c’è. Niente a che fare con pendolini, santini di frati taumaturghi, disegni da mettere sotto il letto… Quelle erano cazzate. Almeno, per Giovanni lo erano. (Non parliamo di Teresa, la razionalità in persona). No, è di qualcosa di sublime, qualcosa che senti anche se non puoi descriverlo.
Un giorno ricordò un biglietto che suo padre gli aveva scritto, in un momento buio, molti anni prima. Ricordò il calore che aveva provato nel leggerlo, e poi tutte le volte che lo aveva riletto, prendendolo dal portafogli. Lo riprese in mano. Un biglietto può diventare un amuleto? No, se non ci credi. Se ci credi, sì. Come quel libro, quella sciarpa, quel maglione, o quella penna infilata sulla camicia. Un biglietto con qualche parola su può fare una piccola magia.
Lo diceva anche il re degli strizzacervelli: le parole sono magiche. (1)
Un giorno, durante il secondo ricovero, Giovanni passò a trovare Caterina in ospedale. Non fu facile arrivare, meno ancora venir via. «Portami a casa, ti prego, qui non mi fanno niente, mi deprimo di più, se tu firmi possiamo uscire, ti prego, portami a casa». Uno strazio. Neanche facile viaggiare, dopo quella conversazione, tanto meno tenere la relazione al convegno il giorno dopo. Tanto meno, quella notte, dormire.
Per fortuna, quando uno non dorme, può scrivere.
Può metter lì emozioni ed esperienze: per molti è una terapia. (2)
Chissà, allora, se ne ha giovamento chi le tira fuori, le proprie emozioni, magari può averne giovamento anche chi le leggerà. Del resto léggere e leggère, via, si scrive uguale.
Con questo pensiero, Giovanni cominciò a scrivere.
Caterina, tesoro,
la fiducia che abbiamo in te ci rassicura sulla possibilità di superare questo momento. Momento difficile, dolorosissimo. E comunque momento.
E di questo momento, ci piace pensare che gli attimi peggiori siano passati.
Siamo scesi all’inferno nelle scorse settimane, ai piani più bassi qualche giorno fa. Ora potremmo rimanerci, farci prendere a schiaffi. Oppure possiamo aprirci la strada lottando, con il corpo, con i denti, con tutta la forza dello spirito, verso la luce.
Verso quel punto cui guardi sempre, mentre danzi, per tenere il tuo equilibrio. Verso quel respiro che ti salva, quando ti senti in affanno. Verso quell’effetto che cerchi quando sei in scena, a suonare, o a recitare. Verso quell’obiettivo cui sai indirizzare i tuoi pensieri migliori.
Siamo certi che anche di questo breve ricovero, i giorni peggiori siano passati: l’arrivo, il sabato, la domenica, il lunedì, insomma l’inizio, la parte sempre più dura (c’è più da 0 a 1…,(3) vero?). Passato.
Ora hai tutte le risorse che ti servono. Lo hai dimostrato, a te stessa prima di tutto, tante volte; e lo scatto di orgoglio della scorsa primavera è solo la più visibile. Hai volontà, intelligenza, capacità di aprirti agli altri. Risorse che ti aiutano, ora, a riprendere in mano la tua vita e, presto, a sbocciare.
Puoi ricominciare a vivere, Caterina. Puoi tornare a essere serena. Puoi farlo, ce la fai. Se vuoi, ce la fai.
Ne siamo sicuri. E siamo, e saremo con te.
Un abbraccio forte.
Aveva messo in quelle parole il suo sentire, più che il suo sapere. Ed erano uscite quelle che sperava lei avrebbe accolto. Confidava fossero quelle giuste.
Non sarebbe riuscito a dirgliele. Non riuscì neanche a darglielo di persona, il biglietto. Temeva la reazione, in quei giorni così fragili. Fu Teresa a scegliere il momento, dopo il ritorno a casa. Caterina lesse, non disse niente. Solo un minuscolo sorriso.
Giovanni sa, comunque, che ancora oggi ogni tanto Caterina riprende in mano quel biglietto.
Anche senza leggerlo.
E sorride.
(1) “In principio parole e magia erano una sola cosa. Attraverso le parole ognuno di noi può dare a qualcun altro la massima felicità o portarlo alla totale disperazione; attraverso le parole l’insegnante trasmette la conoscenza agli studenti; attraverso le parole l’oratore trascina il pubblico e ne determina giudizi e decisioni. Le parole suscitano emozioni e sono il mezzo con cui influenziamo i nostri simili”. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi, Bollati Boringhieri, 1978, pag. 3
(2) A volte gli stessi terapeuti ricorrono alla scrittura per rielaborare un dolore. Ma il potere della parola scritta va anche oltre la malattia: c`è chi ne studia i benefici sulle persone sane. Vedi la nota 5 del capitolo 16.4.
(3) Da una canzone di Claudio Baglioni, Grand’uomo: “C’è più tra 0 a 1 che non tra 1 e 100”. Sul valore degli inizi.
- On 21 Settembre 2012