Giochi di parole, giochi di forza
di Alessandro Lucchini
Si può fare violenza nella salute tramite il linguaggio?
Un articolo tratto dal n. 35 della rivista Janus.
Si può esprimere violenza nella comunicazione della salute? Le parole possono esercitare una pressione indebita su persone in condizioni di debolezza emotiva, e indurre a scelte predeterminate? magari anche in modo inconsapevole, magari anche a fin di bene (e sarebbe opportuno chiedersi: il bene di chi?)?
E di quale violenza si tratta?
Quando ho bisogno di ispirazione su una parola, apro il dizionario. Libro magico. Spesso al piacere della scoperta aggiunge il gusto dell’inversione, da mezzo a fine: da strumento di consultazione occasionale, il dizionario diventa invito all’apertura mentale, stimolo alla riflessione.
violenza
dal latino vis, forza
– l’essere violento; tendenza a usare la forza fisica per imporre ad altri la propria volontà;
– carattere violento di un’espressione, una parola, un gesto;
– intensità con cui si manifesta un fenomeno naturale o atmosferico: un incendio, una piena, un sisma;
– azione violenta, aggressiva, esercitata su qualcuno con mezzi fisici. Coercizione esercitata su qualcuno influendo sulla psiche o la volontà.
Concetto enorme, quasi senza confini. Conviene delimitarlo, altrimenti mi perdo: quasi tutto, in campo medico, può sfiorare la violenza. Non è violento il «Buongiorno!» dell’infermiere di pronto soccorso al paziente che si presenta con i visceri in mano, dopo un incidente? Che razza di buon giorno può essere per lui? Sarebbe violento anche il «Come va?» del medico in visita al malato terminale, se questi non sapesse reagire con un tocco di umorismo: «Benone! sono riuscito a girarmi sul fianco destro; se muoio oggi espongo il mio lato migliore».
Stringendo il campo – il linguaggio e le pressioni indebita sulle scelte del paziente – poiché esistono stereotipi troppo forti in quest’àmbito, i miei primi pensieri sono andati agli operatori sanitari che tagliano corto nei dialoghi con pazienti e famigliari: il chirurgo che vuole sempre operare; l’infermiere che dice «Gliela diamo adesso la pastiglia, anche se è presto, tanto è uguale»; lo psicoterapeuta che avverte «ci vorrà molta pazienza, sarà una cosa lunga», per ingabbiare il paziente con terapie pluriennali.
Un caso esemplare di violenza linguistica è raccontato da Tolstoj nel romanzo La morte di Ivan Il’ic, che ben descrive lo stato d’animo del malato e la sua condizione di inferiorità nel rapporto col medico. Ivan Il’ic era un magistrato: come lui teneva sotto pressione i suoi accusati, parlando loro in modo terribile, così fa ora il medico con lui.
Vedete, questo indica che nei vostri visceri accade qualcosa… Tuttavia, se questa o quest’altra analisi non confermano questo o quel sospetto, allora avanzeremo l’ipotesi che… ecc., ecc….. ora, supponiamo che….”. Ecco quali erano i discorsi del medico. A Ivan Il’ic importava una sola cosa: il suo stato era grave sì o no? Una domanda quanto mai assurda, poiché il medico fingeva di ignorarla… Una domanda oziosa per il corpo medico e sulla quale non valeva neppure la pena di soffermarsi.
A chi pensa che questa è solo letteratura, basterà un giro nella memoria per trovare casi analoghi.
Consensi e bugiardini
Infarto miocardico non q. Il paziente va sottoposto a coronarografia, con possibile angioplastica e impianto di stent. Non c’è forse una violenza intellettuale nella distanza tra lo stile del consenso informato, così meticoloso nell’elencazione delle possibili sciagure
Sono stato inoltre informato che tali procedure, sebbene condotte con scienza e coscienza, presentano alcune possibili complicazioni maggiori, quali: perforazioni delle camere cardiache, dissecazione aortica o di altri vasi, embolie sistemiche (anche cerebrali), embolie polmonari, endocardite, infarto acuto del miocardio, morte.
e la disinvoltura nel commento del medico?
«Sì, c’è rischio come in ogni altro intervento; però lei è giovane, tutti i parametri sono a posto, il rischio è limitato. Sa, quelle cose dobbiamo scriverle…».
E poi: avremo tutti in casa un normale farmaco da banco a base di paracetamolo. Nel bugiardino troviamo magnificamente confuse le informazioni per il paziente e quelle per il medico. Non è violenza linguistica? non è forza autoreferenziale? non ubriaca il paziente di paroloni, chissà poi se necessari, magari per consolidare l’idea di un alto livello scientifico? Solo il medico può sapere se il paziente è affetto da “manifesta insufficienza della glucosio-6-fosfato deidrogenasi”; solo lui deve sapere che il paracetamolo può interferire col risultato di un certo esame di laboratorio, ossia la “determinazione della uricemia mediante il metodo dell’acido fosfotungstico e quella della glicemia mediante il metodo della glucosio-ossidasi-perossidasi».
Ma nel grande scenario della violenza nella salute, possiamo trovare casi per noi ancora più gustosi.
Scene reali di violenza verbale
Solo dalle storie cliniche della mia famiglia.
scena 1
«Scusi, dottore sono arrivati gli esiti degli esami del sangue prelevatomi questa mattina?»
Dopo aver controllato in cartella, e senza guardare la paziente, il medico risponde: «Vanno meglio».
«Grazie, però vorrei sapere se i valori sono rientrati nella norma e a quanto sono».
«Le ho detto che vanno meglio, è inutile che le dica il valore degli esami».
A questo punto lei, irritata: «Senta, sono un medico, le ho posto una domanda precisa: voglio sapere i valori dei miei esami». Finalmente la guarda in faccia e, passando al tu: «Ma dovevi dirmelo subito che eri un medico!».
scena 2
Un anziano contadino perde la funzionalità di un braccio negli ingranaggi della trebbiatrice. Non perde conoscenza, ma perde fiducia nell’umanità, poche ore dopo, a questa frase del medico: «L’arto è da amputare. Passi dal mio assistente, che le comunica i dettagli dell’intervento».
scena 3
Ambulatorio. Il chirurgo conclude la visita che precede una mastectomia a una ragazza di ventidue anni. Lei si è controllata, finora, ma quando il medico dice «Bene! Allora interveniamo», comincia a piangere. Il chirurgo si sente in dovere di rassicurarla con la sua competenza professionale: in piedi in mezzo alla camera, mani nelle tasche del camice, spiega ragioni e dettagli tecnici dell’intervento, fino alla fase postoperatoria. Una lezione accademica perfetta: peccato che ogni parola sembra precipitare la giovane in un pozzo di disperazione. Incoraggiato da una pausa fra i singhiozzi, riprende: «E poi su, avanti, signorina, non si preoccupi. In fondo è solo questione di carrozzeria!».
scena 4
Adolescente, lunga storia di “febbri da origine sconosciuta” (la letteratura medica sa nascondere i propri limiti con definizioni geniali). Anni passati in buona parte a letto, imposte chiuse, pezza bagnata sulla fronte. Termometro a 41, e dopo un’ora giù a 37. Senza spiegazioni. Di fronte al rischio di ammettere un fallimento, il pediatra insinua un dubbio ai genitori: «Ma non sarà paura della scuola? paura del confronto? o di qualcos’altro?». Non trovando effetto, un giorno scatta, stizzito: «Basta, lo ricoveriamo. Se in ospedale non ce l’ha, vuol dire che è febbre finta». Ricovero, esami, niente di nuovo. Il pediatra tenta l’ultima carta: «Andate dal mio maestro, è uno specialista di febbri adolescenziali. Se non esce la soluzione lì, non so cosa fare con vostro figlio». Viaggio della speranza. Il rito della visita dal luminare si conclude con la domanda più arguta: «Ma voi state lì, mentre prova la febbre?». Al muto rigore dei genitori, il guru compila la parcella commentando: «Semmai andate da uno psicologo».
Nella scena 1 c’è la violenza dell’informazione negata, che genera una violenza simmetrica. Eppure la domanda era posta con registro alto e formale: “esiti”, anziché “risultati”; “del sangue prelevatomi”, anziché “del prelievo”. Un generico “Vanno meglio”, per di più a sguardo basso, non può soddisfare. E infatti la richiesta è ripetuta con piccato puntiglio, finché scatta l’indignazione: “Senta”, “domanda precisa”, “voglio sapere”. Il lieto fine dovrà per forza passare dal riconoscimento del simile.
Nella scena 2 c’è la violenza del “poche chiacchiere, non ho tempo, tanto tu cosa puoi capire…”, resa ancora più cruda da quelle tre scelte a catena: la forma modale “è da amputare”, che esprime una condizione di necessità, senza scampo (1) ; l’imperativo “passi”, che chiude ogni possibilità di dialogo; e “i dettagli dell’intervento”, saltando a pié pari ogni eventuale divagazione emotiva.
Nella scena 3 c’è la violenza della determinazione irrevocabile, sostenuta dalla dovizia dei particolari tecnici e inferta su un tessuto emotivo fragile, forse per velocizzare il consenso. L’interiezione “Bene!” suona offensiva, in un momento psicologicamente delicato. Il paternalismo della spiegazione accentua la distanza fra l’uomo maturo e la giovane. La formula negativa, “non si preoccupi”, richiama alla coscienza proprio la preoccupazione. Infine la battuta, che forse vorrebbe solo sdrammatizzare, rivela presupposti negativi: a) sottovalutazione del dramma emotivo; b) negazione della reale causa dell’intervento: fosse solo “questione di carrozzeria”, cioè esteriore, la mastectomia non ci sarebbe; c) sospetto di disimpegno professionale: il chirurgo che minimizza fa temere un comportamento superficiale in sala operatoria; d) equivalenza che mortifica l’identità della persona: donna = automobile; e) equivalenza che implica una concezione meccanicistica: terapia = riparazione di un guasto. Presupposti che negano il principio di cura verso la persona, premessa di ogni terapia e, in generale, di ogni relazione umana.
Nella scena 4 c’è la violenza del “lasciatemi in pace, cercatevi uno stregone!”. C’è l’ironia delle domande, “non sarà paura…?”, “voi state lì…?”, che innesca allusioni offensive. Sempre introdotta dalla durezza dell’avversativa “ma” (2) . C’è l’ambiguità modale di quell’“Andate”, indicativo ma anche imperativo, che trasmette una proposta come un ordine, una decisione unilaterale.
Altri tipi di violenza-forza
Nel dizionario si trovano tanti altri significati di “violenza-forza”. C’è la forza cattiva e quella buona. Quella del corpo e quella dell’anima. C’è quella contro natura e quella secondo natura. C’è la forza che sconvolge il destino e quella che invece lo aiuta (3) .
Certo, le immagini della volontà imposta ad altri con la forza, fisica o psichica, tornano molto vicino al nostro tema di partenza. La terapia – chirurgica, psichica, fisiatrica, farmacologica, radiologica, o altro – contiene spesso atti violenti. Azioni di una forza contro altre forze.
Sono altrettanto vicini al nostro tema i concetti-simboli legati alla natura: uragani, tempeste, incendi, terremoti, catastrofi che straziano intere regioni e tante vite. Anche la salute degli esseri umani può essere straziata da un evento, o da una serie di eventi catastrofici.
A questi tipi di violenza-forza si oppone spesso la violenza-forza della terapia: medici, infermieri, ciascuno con il suo tipo e il suo grado di forza, che può fondarsi su competenza, autorevolezza, carisma, affidabilità, comprensione profonda della situazione, chiara visione strategica, determinazione, oppure su altre radici come autorità, senso del ruolo, distacco emotivo.
C’è poi la violenza-forza della tenacia, del costante farsi carico del quotidiano, spesso riscontrabile nei famigliari del malato, negli amici, nei caregiver. Impatto psicologico (pressioni, difficoltà emotive), impatto sociale (cambia la vita), impatto economico (circa la metà dei caregiver non possono più lavorare). Il caregiver è coinvolto, travolto, assorbito nella cura del paziente non autosufficiente. La violenza della malattia colpisce anche la libertà, l’autodeterminazione, la vita stessa del caregiver. Potrà questi evitare, anche per pura sopravvivenza, di ribaltare almeno una parte di questa violenza sul/la suo/a assistito/a? indurlo/a a una decisione, forzarlo/a a una decisione, o addirittura decidere per lui/lei? e questa violenza sarà buona o cattiva? e se sarà a fin di bene, sarà il bene di chi?
Ancora, c’è la violenza-forza della disperazione. Oseremmo dire della “ri-sperazione”. La capacità di trovare un nuovo scopo in cui sperare, dopo il fallimento della speranza di guarigione. Esemplare il caso descritto nel film John Q: un giovane padre, nero, disperato, semina violenza e paura nell’ospedale perché il figlio non può ricevere un trapianto di cuore, per mancanza di copertura assicurativa. Arriverebbe a violentare se stesso, costringendo i medici a espiantargli il cuore per donarlo al figlio, se non arrivasse puntuale il classico miracolo del film americano.
C’è poi la violenza-forza della rassegnazione, della ferma accettazione del destino. Il pensiero vola a Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Una forza per molti incomprensibile, per alcuni ingiusta, innaturale, contraria all’etica; per altri, l’unica forza capace di rispettare la dignità dell’essere umano. Difficile commentare la contro-violenza, quella del pettegolezzo televisivo, o, peggio, della propaganda politica. L’apice è raggiunto qui da Berlusconi a febbraio 2009: «Eluana è viva, è in grado di avere figli, non farò omissione di soccorso».
C’è la violenza della minaccia, dell’esagerazione: «Signora, glielo dico chiaro e tondo. Se non smette di fumare si chiuderanno tutte le vene e dovremo amputarle una gamba, e poi magari anche l’altra». Non sto inventando. Sono parole dette dal chirurgo vascolare a mia madre, da sempre accanita fumatrice. Ho provato anch’io a seguire quella strategia. Smussando le punte, ma il senso era quello: parlavo di «conseguenze tremende», «disagi gravissimi», «vita impossibile». Con lei, sempre attenta a non essere di peso per nessuno, ho toccato addirittura la corda dell’autonomia, dipingendo le tinte più fosche sull’immagine della sedia a rotelle. Effetto: zero. Del resto, frasi come «Il fumo uccide», «danneggia gravemente la salute», «chiude le arterie»…, stampate da anni sui pacchetti, non hanno minimamente ridotto il consumo. Anzi, hanno generato familiarità, e un’omeopatica sdrammatizzazione. Addirittura il comico! Circola questa barzelletta: un tipo entra in tabaccheria e ordina un pacchetto; uscendo, nota la scritta: «Il fumo rende impotenti». Si blocca. Torna. «Scusi, mi dà il fumo uccide, per favore?»
E c’è la violenza del silenzio, dell’omissione, o della bugia. Di nuovo Tolstoj, da La morte di Ivan Il’ic:
Niente lo faceva soffrire come la menzogna, quella menzogna generalmente ammessa e adottata da tutti, secondo la quale egli era sì malato, ma non così gravemente, e bastava che restasse tranquillo perché tutto si risolvesse per il meglio… A che pro nascondergli quel che egli stesso non ignorava, perché fargli recitare per forza questa commedia e dissimulare davanti a lui la gravità del suo stato?
Molti di noi conosceranno casi di silenzio, di eufemismi, di commedie recitate dai familiari, che forse hanno tolto al malato l’impatto violento con la realtà, ma anche la libertà di decidere come passare gli ultimi istanti della vita. Forse non è violenza, quella. Forse sì.
Sinonimi
Per concludere tornando al dizionario, altri spunti interessanti potrebbero uscire dai sinonimi: furia, impeto, impetuosità, prepotenza, virulenza; aggressività, brutalità, ferocia, irruenza, spietatezza, turbolenza; litigiosità, rissosità; aggressione, crudeltà, abuso, sopruso, maltrattamento, angheria, oltraggio, sevizia, vessazione; teppismo, vandalismo.
Altri, persino dai verbi collegati: violare, oltraggiare, contaminare, contravvenire; devastare, guastare, saccheggiare, invadere; maltrattare, offendere, disonorare; violentare, profanare; infrangere, trasgredire, tradire; colpire, danneggiare; tingere, colorare.
Tingere? che c’entra tingere?
Già, ecco la magia della parola a risollevare la speranza nell’umanità e nella natura:vìola, accento sulla i, è l’azione del violento; con l’accento sulla o, parte un suono avvolgente; parte il colore, e il profumo, di un piccolo bellissimo fiore.
(1)I linguisti parlano di modalità anankastica, dal greco anànke: violenza (appunto!), costrizione, necessità, fato, destino.
(2) Parole come ma, però, tuttavia hanno un valore emotivo che trascende la loro funzione sintattica. Con una frase come “la situazione è molto grave, ma per fortuna l’abbiamo presa in tempo”, il cuore si alleggerisce e spera; con “per fortuna l’abbiamo presa in tempo, ma la situazione è molto grave”, facile cadere nel pessimismo. Del resto, la congiunzione “avversativa” serve proprio a unire due parole o due frasi esprimendo opposizione. Genera “avversione”, contrarietà.
(3) Secondo Plutarco, la morte di un giovane è un nufragio, quella di un vecchio è un approdare al porto.
- On 25 Ottobre 2012