Ridere nell’anticamera dell`inferno
di Annamaria Anelli
Antonio Valenti è infermiere professionale e lavora dal 1997 nel reparto di chirurgia dell’Ospedale Mauriziano di Torino. Il reparto è costituito da due strutture complesse: chirurgia epato-billio-pancreatica e ginecologia oncologica. Antonio è esperto in oncologia, chirurgia e area sub-intensiva: quell’area dedicata alla sorveglianza dei pazienti nell’immediato post-operatorio o con criticità cliniche tali da necessitare di continua attenzione.
Secondo te, si può imparare a usare l’umorismo in un ambiente di cura?
Secondo me ci sarebbe bisogno di imparare delle tecniche relazionali per alleviare lo stress, ma dal mio punto di vista è qualcosa di difficilmente realizzabile, senza un forte commitment da parte dell’organizzazione ospedaliera.
Per la mia esperienza quotidiana in un reparto complesso, posso dire che il nostro è un contesto davvero ansiogeno, quindi potrebbe essere utile sperimentare l’utilizzo di una qualche forma di “approccio leggero”, anche se per breve periodo. In passato abbiamo fatto un lavoro per gestire l’ansia pre-operatoria dei pazienti. Per ridurre l’ansia di stato, quella legata all’evento operatorio, non l’ansia di tratto, legata alle caratteristiche della persona. Alcune cose le abbiamo introdotte nella nostra pratica, ma poi ci siamo fermati lì.
Cosa rientra per te nell’ambito dell’umorismo? Cosa ci vedi dentro a questa parola?
Parto dal presupposto che i pazienti pendono dalle labbra del medico e in misura minore dell’infermiere. Poter scatenare un sorriso a volte può valere tanto quanto una terapia. Secondo me è un mezzo per instaurare una relazione. Ma non solo.
Nei reparti ad alta complessità come il mio i pazienti non sono considerati essere umani. L’ospedalizzazione come viene fatta oggi è un evento traumatizzante, per il paziente, soprattutto quella lunga e con complicazioni. L’utilizzo dell’umorismo potrebbe essere un metodo per farlo stare meglio, certo, ma anche – e forse soprattutto – un mezzo per conseguire dei risultati in ambito clinico.
Gli infermieri potrebbero essere cruciali, per questo. Senza dimenticare che gli operatori socio sanitari (OSS) sono quelli che stanno più vicini al paziente. L’infermiere tende a passare più tempo dietro alla scrivania, sempre per attività legate al paziente beninteso, mentre l’attività assistenziale diretta viene demandata agli OSS o agli ausiliari, che spesso non hanno formazione necessaria. Gli OSS hanno fatto 600 ore di corso, hanno una cultura medio bassa, spesso sono persone che si riciclano nella sanità, spesso sono stranieri: quindi con un gap socio-culturale rilevante.
Secondo la legge l’infermiere è responsabile dell’assistenza generale infermieristica, dovrebbe rispondere dei problemi di salute del paziente. In realtà, l’organizzazione si basa sull’esecuzione delle attività: quindi l’infermiere somministra la terapia o fa le medicazioni, ma la risposta al fabbisogno di salute passa in secondo piano.
Il paziente in fase terminale o quello che ha uno scarso adattamento al regime terapeutico dovrebbero essere ambiti precipui dell’infermiere, ma non è così. Un paziente del genere è parcellizzato tra molte figure: gli OSS, gli ausiliari, gli infermieri, gli specialisti e naturalmente il suo medico di riferimento.
I pazienti, secondo te, accettano volentieri da un medico o da un infermiere/una infermiera un qualche atteggiamento di “vicinanza emotiva” basato sul sorriso?
Dipende dalla cultura del paziente. Qui fa scuola Madeleine Leininger (etnonoursing: l’assistenza infermieristica deve adattarsi alla cultura, al credo, alla religione del paziente).
La battuta o lo scherzo deve essere commisurato alla cultura del paziente. L’infermiere, in base alla sua bravura, viene inquadrato dal paziente o verso l’area medica o verso quella dell’operatore di supporto. In questo i pazienti sono molto bravi, sanno distinguere bene un buon infermiere o un buon medico.
La battuta è solo uno strumento, l’obiettivo è far stare meglio il paziente, ma accettare una battuta dipende da elementi culturali, geografici, di studio.
Usi l’umorismo con i colleghi?
Per me lavorare è un divertimento. Nella mia realtà c’è un alto carico di lavoro, ci sono pazienti complessi, tumorali, che fanno una chirurgia spinta. Ginecologia oncologica segue le pazienti anche nelle fasi terminali. È l’anticamera dell’inferno.
Sono in un ambiente di donne: competitive, stressate; io uso sempre la battuta. Per sdrammatizzare la tensione, per rendere il clima vivibile. Ci sono delle volte in cui già dal mattino presto tutti si lamentano per qualcosa e sembra che nessuno lavori. Se ci sono io – quando sostituisco la caposala – le prendo in giro e riesco a disinnescare il carico di tensione: questo ricade positivamente sui pazienti.
Un infermiere sereno è meno aggressivo verso il paziente. Ridurre lo stress è fondamentale. Anche nei momenti in cui c’è più confusione cerco di usare l’umorismo per stemperare le tensioni, anche verso i medici.
Puoi fare qualche esempio di umorismo usato con i pazienti?
Poter entrare in relazione è fondamentale. Esempio classico: si entra in una stanzetta e si trovano tre pazienti immobili nel letto. Si può entrare in una stanza così e limitarsi a svolgere le proprie attività: ad esempio consegnare tre compresse, mettere le flebo e misurare tre pressioni. Fatto.
Oppure si può entrare e dire “buongiorno signore, come state? come mai non avete ancora fatto i letti stamattina?”.
Io faccio così.
Oppure cerco di occuparmi un po’ di più del paziente immusonito e triste e dopo avergli strappato un sorriso gli chiedo: “beh? come mai ride? che cosa è successo?”. Prima di tutto, però, dobbiamo essere sereni noi operatori.
L’uso dell’umorismo serve per migliorare le relazioni, certo, ma serve anche come cura?
Secondo me sì. In chirurgia il paziente che ha una ripresa più lenta ha un rischio di complicanze elevatissimo. Un paziente che ha asportato buona parte di fegato, pancreas, stomaco deve recuperare in fretta.
La battuta può essere un modo per entrare in relazione, ma non solo, è un modo per far sì che il paziente collabori nella mobilitazione, nel mantenere una posizione più elevata.
Un esempio è il paziente che ha confezionato una enterostomia: l’intestino è derivato sulla cute dell’addome, cioè l’intestino è cucito e aperto verso l’esterno, per cui le feci fuoriescono da lì.
In questo caso il paziente ha un’alterazione dell’immagine corporea, una perdita di stima, ansia per il ritorno a casa. È una cosa forte. Un “approccio lieve” può far entrare in relazione, certo, ma l’obiettivo è far sì che il paziente si adatti alla nuova situazione.
Un paziente sereno è un paziente che riposa di più. Il sonno è una di quelle cose che vengono dimenticate negli ospedali: le organizzazioni tendono ad essere incentrate su di sé più che sul paziente. Il paziente che non riposa è un paziente che non recupera e nel nostro reparto ciò è sinonimo di complicanze.
L’atteggiamento dell’operatore è fondamentale.
Ci sono stati dei casi nella tua esperienza in cui sei dovuto intervenire con un po’ di umorismo in una situazione particolarmente delicata?
Sì, dopo la comunicazione della diagnosi.
Il paziente arriva con una quasi certezza diagnostica che è tale solo dopo l’istologico, cioè dopo l’esame del tessuto asportato durante l’operazione. L’istologico arriva a 8-10 giorni dall’intervento. Che è anche il tempo necessario al paziente per riprendersi dall’operazione.
Ci sono invece dei casi in cui il paziente vede la sua diagnosi, e soprattutto la sua prognosi, cambiare da un momento all’altro: un paziente candidato alla chirurgia entra in sala operatoria e quando ne esce non c’è più indicazione chirurgica. La malattia, cioè, è in uno stadio talmente avanzato che non si può procedere chirurgicamente e lui morirà nel giro di poche settimane o di pochi mesi.
Il giorno stesso non viene detto niente al paziente, è ancora sotto l’effetto dell’anestesia, ma la notizia viene comunicata ai parenti. Lui viene informato il giorno dopo, ma non gli viene comunicata una diagnosi completa. Il chirurgo riferisce solo di quello che lui ha visto, osservato; manca l’istologico definitivo; non si è ancora pronunciato l’oncologo e i parenti, se ci sono, sono troppo scossi per servirgli da punto di riferimento.
In questi casi l’umorismo mi è servito prima. Se prima sono riuscito a usare un “atteggiamento leggero” per creare una relazione, adesso sono avvantaggiato. Riuscirò a parlare con il paziente, a fargli sentire la mia presenza.
Come si fa a tenere insieme un atteggiamento leggero e la morte?
In reparti come il nostro, con circa 45 passaggi giornalieri tra pazienti che entrano o escono, o l’ ”approccio leggero” è qualcosa che qualcuno ha pensato prima, strutturato, o se no la battuta è solo una battuta, fine a sé stessa.
Il paziente spreca un sacco di energia a pensare a che cos’ha, a cosa gli hanno detto, a che cosa farà. Tutto ciò perché alla base lui non sa.
Quanto deve sapere, il paziente? Quanto è giusto che sappia? Non lo so. Il paziente deve essere informato, ma fino a un certo punto. Non bisogna formare il medico nel paziente.
Dopo un po’ di tempo che lavori in reparto, quando entra un paziente capisci subito che si tratta di un “paziente morto”. Si vede. Non è il paziente che muore domani, ma è quello che subirà un’operazione, avrà un prolungamento della vita.
L’oncologia medica lavora per cronicizzare la malattia e allungare la sopravvivenza del paziente il più possibile. L’operatore ha questo potere: di rendere la vita insopportabile al paziente, nolente o volente.
Fino a pochi anni fa era assolutamente normale che i pazienti morissero. Fino a pochi anni fa la bravura di un medico era data dalla sua capacità di prognosi, non solo di cura. Negli ultimi 15-20 anni è subentrato il mito dell’immortalità.
Il paziente spesso non lo sa, di essere spacciato, molte volte sì.
Un esempio di qualche settimana fa: donna di 47 anni, tumore alle ovaie in fase avanzata, lunga storia di malattia. Tutti sapevamo che la paziente sarebbe morta e lo sapeva anche lei. Chiedeva solo di andare a morire a casa. Però questa persona non poteva stare in un letto tutto il giorno a pensare che stava morendo, con intorno familiari affranti e vicine di letto che vedevano in lei quale sarebbe stato il loro futuro. Io potevo entrare e misurare la pressione. Invece no. Aveva le unghie laccate di rosso con i brillantini sopra, io la prendevo in giro e almeno la facevo sorridere.
Come si potrebbe inserire l’umorismo in un reparto ospedaliero?
Prima di tutto la struttura ospedaliera dovrebbe essere propensa. E adesso non lo è. Quando vengono i clown il sabato pomeriggio tutti trovano irritanti i palloncini.
Ma un clima un po’ meno freddo potrebbe davvero aiutare.
Fondamentale è però la formazione: bisogna formare l’operatore dal punto di vista teorico e poi inserirlo nell’organizzazione magari iniziando da piccoli momenti di incontro. Non si può far calare dall’alto l’umorismo in una struttura ospedaliera, da un giorno all’altro.
Sarebbero utili momenti ufficializzati di scambio tra operatori in cui le esperienze di tutti venissero valorizzate e rese patrimonio comune. Ma bisognerebbe incidere profondamente nell’organizzazione, perché nessuno ritiene l’utilizzo dell’umorismo, nelle sue possibili forme, come un tema prioritario. Potrebbe facilmente far parte di quel genere di cose che nascono e muoiono nel giro di poco.
In generale, quando in una organizzazione viene introdotta una novità – e l’ospedale non fa eccezioni – il gruppo si distribuisce così: gli “entusiasti” accolgono le novità immediatamente e provano a metterle in pratica, una quota di persone temporeggia aspettando gli eventi, ma i più numerosi sono quelli “resistenti”, senza contare gli “intrattabili” che occorre obbligare a fare qualsiasi cosa.
In ospedale anche solo un evento formativo sul tema potrebbe portare un cambiamento. E subito potrebbe avere una ricaduta sui pazienti. Almeno in qualche caso.
- On 22 Ottobre 2012