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L’Urp in ospedale: la politica, l’ingegno, i reclami, l’allegria

di Alessandro Lucchini

Intervista a Lia Di Marco, direttore della struttura complessa Comunicazione e relazioni con il pubblico dell’ospedale Le Molinette di Torino.

Lia, sei direttore di una “struttura complessa”: cosa c’è sotto la definizione?

È un profilo che si configura alla pari di un livello primariale. Questo è poco diffuso nelle aziende sanitarie locali e ospedaliere: è molto importante, in una struttura grande come Le Molinette, avere un ruolo di rilievo che ti mette alla pari con i medici e con altri dirigenti per realizzare gli obiettivi dell’azienda.

Che cosa significa essere alla pari con i medici?

Hai più potere propositivo e decisionale, puoi avviare processi, adottare determine, trattare con i direttori sanitari, con il direttore generale, senza dover passare attraverso troppi livelli intermedi. Questo ci permette di gestire l’ufficio relazioni con il pubblico secondo le esigenze dei cittadini, e anche secondo le esigenze degli operatori, dei reparti, degli ambulatori. Ci fa essere trasversali alle strutture dell’azienda, da quelle sanitarie assistenziali a quelle amministrative. Tra l’altro, siamo proprio nel centro dell’ospedale, anche come geografia: il nostro ufficio sta tra la direzione sanitaria e la direzione generale; davanti a noi ci sono i reparti e gli ambulatori. Ci interfacciamo con la parte assistenziale, per il ruolo insito nelle relazioni con il pubblico, che è tutelare e collegare i cittadini con gli operatori sanitari; ciò non sarebbe possibile senza un collegamento stretto con le direzioni e un buon potere contrattuale.

Quali professionalità comprende il vostro Urp?

La legge prevede un profilo amministrativo. Titoli di studio richiesti: diploma di scuola media superiore e laurea in scienze politiche, giurisprudenza o economia e commercio con un master in comunicazione pubblica. Con l`introduzione della Legge 150/2000 e` sufficiente la laurea in scienze della comunicazione. Nel nostro Urp, però, abbiamo anche operatori sanitari, che insieme con gli amministrativi gestiscono i vari compiti, dal centro congressi al portale aziendale, a tutta la carta stampata, ai video.

Curate voi anche il portale web?

Non la struttura informatica, che è seguita dalla struttura Informatica e Telematica: curiamo la struttura comunicativa, i contenuti, l’aggiornamento delle informazioni per gli utenti, la grafica.

Quanto siete autonomi, in questo lavoro?

Oh, bella domanda. È curioso notare come le varie direzioni generali hanno influenzato il portale. Ci sono stai momenti in cui dovevamo tenere un profilo basso: la direzione generale ci chiedeva di non dare visibilità all’azienda, voleva colori un po’ mosci, informazioni che non destassero troppo interesse. Oggi abbiamo ravvivato il colore, abbiamo rifatto la grafica della home page e siamo molto attivi nell’aggiornarla e modificarla secondo le esigenze della direzione generale.

Una cosa che ti piace tanto di questo lavoro?

È un lavoro molto vario. Negli anni ho potuto misurarmi su diversi fronti. Per esempio, 10 anni fa qui non esisteva un bar. Oggi c’è un bellissimo bar di 400 metri quadri, proposto da noi e realizzato con una gara d’appalto, a costo zero per la struttura. Quando all’epoca chiesi di realizzare un bar sembrava impossibile: mancavano i fondi. Ingegnarsi, trovare il modo per dare servizi all’ospedale, all’utente, all’operatore, è un bel modo di esprimersi. Ancora: il servizio di accompagnamento. Per molti utenti – sempre più anziani, affetti da malattie neurologiche – andare da una parte all’altra dell’ospedale è un problema (140mila metri quadrati). Nel pronto soccorso ci sono delle carrozzine a disposizione, anche prenotabili. Un famigliare, un parente, un amico accompagna qui il paziente, lo affida a nostri operatori, che lo accompagnano a fare analisi o visite e poi lo riportano lì. L’idea di questo servizio è venuta osservando le esigenze delle persone, e ingegnandosi per risolverle.

Una cosa che ti piace poco di questo lavoro?

Questa, anche se non riguarda direttamente il mio lavoro: le strutture sanitarie risentono troppo della politica. Non riesci sempre a essere veramente un professionista, devi adeguarti agli input politici (il direttore generale delle aziende è nominato dagli assessori alla sanità).

Beh, in Italia la sanità è ancora un fatto pubblico: se si potesse parlare di politica nel senso alto, non sarebbe un male che ci fosse influenza politica.

Vero. Solo che se sei un primario, e dirigi un reparto, gli interventi chirurgici li fai comunque, perché quello è il tuo lavoro. Nella comunicazione invece sei sempre vincolato agli input della direzione generale.

Veniamo ai reclami dei cittadini-pazienti: in che modo vi arrivano?

Arrivano via fax, via mail, ma per lo più di persona. Arrivano i cittadini qui da noi, compilano un modulo e noi apriamo un’indagine interna: scriviamo al primario, al medico o alla caposala chiamati in causa e chiediamo delle spiegazioni il più possibile oggettive. Cerchiamo di capire come sono andate le cose, se è vero che è successo quel fatto, se c’è stato un errore nei farmaci, se nella cartella clinica non è stato scritto qualcosa di importante. E ci impegniamo a diamo la risposta al cittadino entro 7 giorni.

È stato importante per noi creare una commissione con la direzione sanitaria, costituita dal direttore sanitario di presidio, dal direttore della qualità e da me, per analizzare i reclami più gravi, su problemi riguardanti interventi chirurgici, errori nelle procedure, inefficienze organizzative. Aspetti tecnico-sanitari, sui quali noi comunicatori da soli non abbiamo autorevolezza: potremmo solo sensibilizzare un primario, una caposala a comportarsi diversamente o a cambiare le procedure. La commissione, invece, analizzato un reclamo, può portare dei miglioramenti nei reparti, nelle procedure, e quindi essere efficace e concreta.

Quali sono le cause principali dei reclami?

Sono di tre tipi: gli aspetti legati alla ricettività, gli aspetti tecnico-professionali in ambito sanitario e amministrativo, gli aspetti relazionali. La maggioranza assoluta dei reclami è sugli aspetti relazionali, che nel primo semestre 2008 hanno inciso intorno al 48% del totale. Nel semestre precedente eravamo intorno al 60%. Stiamo migliorando, ma sappiamo che è ancora lì il nocciolo del problema: la comunicazione tra medico e paziente, o tra struttura e paziente, nonché gli scambi interni della struttura ospedaliera, tra i reparti. Il problema non è quello che non si fa: il problema è come si fa. Pochissimi reclami riguardano omissioni o errori clinici. È raro che non ci sia la prescrizione giusta, o che non sia somministrato un farmaco necessario. Il problema è come è stato fatto tutto ciò.

La parola chiave della comunicazione è “come”; non “se”, non “perché”.

Già: e se quella cosa viene fatta male, alla fine la percezione è che non venga fatta proprio. Tempo fa ci siamo riuniti in commissione su richiesta di un signore molto risentito per sua madre. Diceva che non l’avevano visitata bene e non le avevano somministrato i farmaci giusti. Andando a spulciare, tutte queste cose erano state fatte, ma male. Medici e infermieri non si parlavano: comunicazione insufficiente nel reparto, a cambio turno ognuno aveva fatto la propria parte e stop, mancava chi collegasse le diverse parti. Quale messaggio può arrivare all’utente? Poco controllo dei processi, sfiducia nel reparto e nell’ospedale.

Quali sono i ruoli più influenti, e più delicati, nella comunicazione in un ospedale?

Un ruolo fondamentale è quello della caposala, responsabile di tutti i processi organizzativi di un reparto (cibo, comfort, turni…). Negli ultimi anni, il personale infermieristico rivela qualche carenza nella comunicazione, e non senza motivo: turni onerosi, relazioni conflittuali con i medici… Spesso i medici subiscono la gestione del reparto della caposala, e tendono a defilarsi. Bisognerebbe ricompattare in un’unica équipe questi due importantissimi ruoli. Vedi, il medico, l’infermiere, giocano il loro ruolo comunicativo soprattutto nel far dialogare il mondo esterno degli utenti con il mondo interno dei professionisti. La/il caposala, oltre a questo, ha un ruolo centrale di comunicazione organizzativa interna: motivazione, leadership, gestione del clima e della collaborazione sono doti indispensabili.

Un aggettivo che riassume la qualità delle relazioni con il pubblico alle Molinette?

Buono e utile.

Perché buono e utile?

Per i motivi che ti ho detto:fare da cerniera tra i cittadini e l`ospedale, far realizzare il bar, il servizio di accompagnamento, la lavanderia, il parrucchiere. Servizi importantissimi: quando una persona è ricoverata ha bisogno di sentirsi, se non a casa, almeno in un ambiente un po’ confortevole. Il ricovero diventa un danno davvero grave se le strutture non pensano ad aiutare le persone in questo momento della vita.

Il legame tra l’aspetto sociale e quello sanitario, dunque, è oggi sempre più importante? Penso all’invecchiamento della popolazione, all’evolversi delle esigenze, all’aspettativa di un livello di vita più umano anche in ospedale.

Certo. C’è anche un’iniziativa ludica, partita questo ottobre, che dura fino a maggio 2009: grazie a un accordo con il Teatro Regio e il Teatro Stabile di Torino, un lunedì al mese vengono qui degli attori di teatro a intrattenere i ricoverati. Noi abbiamo una bellissima aula magna, funzionale ai convegni scientifici. Abbiamo pensato: perché solo per i convegni? Nel 1999 avevamo introdotto il cinema per i degenti, che aveva riscosso un successo notevole. Ma il cinema è più asettico: il teatro è più caldo. Attori che leggono monologhi, racconti a sorpresa, alternati a momenti musicali. La rassegna s’intitola “Prosa e musica”. È costata solo il rimborso delle spese degli artisti. Quando siamo andati a parlare con i responsabili del Regio e dello Stabile, erano entusiasti, disponibili e felici di poter portare un po’ di allegria in ospedale.

Dunque tu credi nella possibilità di portare allegria in un luogo di cura, magari anche di dolore, come un ospedale? Cosa pensi invece della medicina del sorriso, dei clown che girano nei reparti per far ridere la gente, dell’uso dell’umorismo anche in reparti estremi, come il pronto soccorso e la rianimazione?

Con cautela, ci credo. Nel 2003 abbiamo avuto Patch Adams, qui in aula magna, con alcuni clown della sua scuola che giravano nei reparti. È stata una giornata incredibile: c’era una positività in quell’aula, pienissima di gente, un’energia che raramente ho visto in un ospedale. Certo, possiamo chiederci se in certi reparti così segnati dal dolore (anche oncologia, ematologia…) ci sia spazio per l’umorismo, per la sdrammatizzazione o la drammatizzazione positiva. Non credo sia gran che utile imporre questi momenti. Patch Adams però non è per niente banale: non sottovaluta le malattie, né la morte, per un generico buon umore. Ma mette molta enfasi su come affrontare la vita, su come essere positivi comunque. I

Ma se poi, un giorno, fossero gli stessi medici, gli infermieri, gli stessi amministrativi, a sviluppare un senso dell’umorismo che aiuti chi soffre a passarsela un po’ meglio?

Io giro spesso nei reparti, cercando di portare un sorriso. Chi è a letto all’inizio mi guarda male; poi si addolcisce; allora mi giro, e senza imporre nulla si crea rapidamente una relazione, e sono contenti di parlarti. Non devi arrivare lì con il muso, devi essere vitale tu: se lo sei, puoi trasmetterlo, la gente lo recepisce.

Ok, è un tema che stiamo studiando, nella nostra ricerca sul linguaggio della salute. Ci risentiremo, su questo. Grazie, Lia, per ora.

  • On 22 Ottobre 2012
Tags: humorterapia, psicologia, psicoterapia, umorismo
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