“Toccami”
di Giancarlo Galli
Un attacco di cuore. L’emergenza, lo straniamento, il non capire.
Momenti pesanti per tutti, specie per un adolescente.
Le parole che non ti toccano e ti lasciano da solo.
Papà sta male.
È ritornato a casa alla fine di un pomeriggio anonimo di giugno, alla tivu danno un documentario sugli animali, da qualche parte in sud-America un tizio in sahariana si fa avvolgere nelle spire di un serpente gigantesco, ma non sembra preoccupato, parla a quello che sta dietro la cinepresa e spiega delle cose sul serpentone. Sullo sfondo una pianura ondulata e un sacco di alberi. Deve fare un caldo bestia lì in sud-America. Anche qui è caldo, c’è afa.
Non si capisce cos’ha papà. Gli ho aperto io, aveva il solito aspetto, ma appena entrato ha cominciato a dire che si sentiva soffocare. La mamma è arrivata dalla cucina, ha cominciato a fargli domande, con voce spaventata. Lo ha fatto stendere sul letto, lui si è aperto la camicia e tolto le scarpe, la mamma mi ha mandato a chiamare un medico che abita al settimo piano. Sono arrivato davanti a casa del dottore con il cuore in gola. Uno dei suoi figli è stato un mio compagno di scuola, anche se adesso facciamo le medie in scuole differenti. Non siamo particolarmente amici e poi sono sempre in imbarazzo a interpellare gli adulti. Adesso, poi… non so come districare le emozioni che mi annodano la gola. Apre la moglie, farfuglio qualcosa sul fatto che mio padre sta male, lei chiama il marito. Sono combattuto tra il desiderio di spiegarmi e il pensiero che si tratti di una cosa da niente, magari adesso allarmo il dottore e poi lui viene giù e tutto si è già sistemato… il dottore è stupito, dice che era in ascensore con mio padre, poco fa, sembrava tutto normale, anzi… commentavano una notizia sul giornale e il dottore aveva osservato che papà leggeva senza occhiali mentre lui, dieci anni meno, non poteva far senza…
Il dottore è sceso velocemente, ha visto mio padre e ha detto qualcosa a mia madre, che è andata al telefono dell’ingresso e ha cercato il numero della Croce Rossa.
Tutto è accaduto in un attimo: si è sentita la sirena, sono arrivate delle persone con una barella e portano via mio padre sulle scale, perché l’ascensore non è abbastanza grande. Mia madre chiede se può salire sull’ambulanza e scende anche lei.
Ho i pensieri paralizzati. Ho disperatamente bisogno di sapere cosa succede ma non voglio chiedere nulla, è come se la sola idea di pensare e parlare di quello che accade mi facesse sentire dotato del potere mostruoso di rendere tutto irreparabilmente vero. E io non voglio che quello che sta succedendo diventi vero, adesso papà si riprenderà, il dottore dirà che si è trattato di un falso allarme, di un equivoco … può accadere a una persona di sentirsi male, poi tutto ritorna normale. Lo spauracchio viene ricacciato indietro.
Ma quale spauracchio? Non oso pronunciare parole irreparabili, anche solo nel chiuso della mia mente. Però c’è qualcosa di gigantesco e opprimente da qualche parte dentro di me, che preme e non mi fa respirare.
Nessuno intorno a me pronuncia parole irreparabili. Mia madre se n’è andata con papà. Resto in casa con mia sorella, che è molto più grande di me, in agosto avrà ventun anni.
Non ho idea di cosa stia pensando, ci ripetiamo due o tre volte le cose che sappiamo, come una giaculatoria priva di senso: papà si è sentito male, ma il dottore ha detto che poco prima l’aveva visto bene, che leggeva senza occhiali, scherzavano sull’età… e poi, il papà è sempre stato bene, solo quella volta, la bronchite… avrà mangiato qualcosa che gli si sarà fermata sullo stomaco, d’estate capita, magari uno mangia cose fredde… dove ha detto che lo portavano la mamma? comunque poi telefonerà per dire come va… se non ha chiamato vuol dire che si stanno occupando del papà… certo è passato un po’ di tempo… chissà se tornano per cena…
Bisogna aspettare. Ci rimettiamo a guardare la televisione.
Ogni tanto ci ripetiamo, come un rituale scaramantico, la routine completa delle “cose che sappiamo”, che dovrebbero scaricare un po’ la tensione e invece la fanno salire a mille. Credo che abbiamo smesso da un pezzo di ascoltarci a vicenda.
Sono passate da poco le nove, credo. Arriva una telefonata. Molto breve. Risponde mia sorella. Mi dice che le hanno detto di andare anche noi in ospedale, se vogliamo vederlo vivo.(1) Comincia una serie di telefonate per farci accompagnare in ospedale, perché con i mezzi a quest’ora ci metteremmo un sacco di tempo. Vedo mia sorella sotto tortura, perché a ogni telefonata deve spiegare quello che sta succedendo, e io immagino che lei non voglia parlare di quello che succede. Ma forse le sto attribuendo solo quello che provo io.
Troviamo un passaggio. Ci hanno indirizzato al pronto soccorso. Troviamo la mamma. Nessuno ci dice niente. A lei hanno detto qualcosa di cui non ha capito granché. E che stanno cercando di salvarlo. Rimaniamo in attesa, negli spazi di passaggio di questo posto infernale dove infermieri, medici in camice bianco e medici con la tuta verde dei chirurghi entrano ed escono dalle stanze, in mezzo a gente come noi che aspetta, in piedi o su qualche sedia rimediata in giro. A un certo punto si apre una delle porte che danno sul corridoio, perché un infermiere sta entrando in una stanza. Vedo un letto, rialzato, con le rotelle. In realtà ne vedo solo una parte, sopra c’è una persona, un uomo, torace nudo. Il torace è l’unica cosa che vedo, in profilo. Due infermieri appoggiano pesantemente sopra il torace due dischi neri, attaccati a un filo elettrico nero, grosso, di quelli avvolti a spirale. La porta si richiude velocemente. Al momento non lo sapevo, non potevo saperlo, ma quella è stata l’ultima immagine di papà. Aspettiamo ancora altro tempo indefinito, senza parole. Tra noi tre scende un gran silenzio. In un momento qualunque, un infermiere avvicina mia madre e le chiede di seguirlo in una piccola stanza con scrivania e un paio di sedie, pareti di vetro, a vista con il corridoio. La mamma ci guarda come a chiederci di entrare, ma non ce n’è bisogno. Siamo già dentro anche noi. L’infermiere ci guarda e poi comincia a chiedere a mia madre le generalità di mio padre.
Questo è stato tutto quello che ho saputo di come e perché se n’è andato papà.
Non volevo spiegazioni scientifiche, che non avrei compreso e nemmeno voluto ascoltare. Non volevo nemmeno consolazione, che non avrei potuto ricevere perché questo avrebbe significato essere prima di tutto io in contatto con ciò che succedeva dentro di me, ma allora non ero in grado di sostenere una cosa del genere (e non lo sarei stato per molto altro tempo).
Ma quella spaventosa solitudine e quella voragine di non senso che ho vissuto hanno scavato un solco profondo dentro la mia persona. Sono stato deprivato della sola cosa che potesse restituirmi significato in quel momento, un aiuto a essere consapevole del mio dolore, qualcuno che si avvicinasse e mi toccasse, magari con le parole.(2)
(1) Si può comprendere la situazione di emergenza, il sovraffollamento al pronto soccorso. Però non ha senso non preoccuparsi di sapere chi risponderà all’apparecchio. Sarebbe bastato chiedere alla moglie del ricoverato. E magari proporle di essere lei a fare la telefonata, fornendole prima qualche informazione più chiara per lei e per i figli.
(2) È indubbiamente difficile e ingrato il compito di comunicare ai famigliari la morte di una persona, oltretutto, dopo un decorso shock di infarto come questo. Però non si può saltare a pié pari il problema, passando agli espletamenti burocratici. Almeno a questo punto sarebbe stato doveroso offrire una rappresentazione comprensibile di ciò che era successo, formulandola nella maniera più semplice e (massì, usiamola questa parola inflazionata e abusata, ma piena di significato qui) umana. La presenza di un ragazzino avrebbe “meritato” anche la scelta di non limitarsi alla comunicazione per tutti e tre fatta alla madre, ma di rivolgere qualche parola a lui direttamente, avvicinandosi, “toccandolo” con le parole. In queste situazioni bisogna saper essere semplici, non serve la creatività verbale di Cyrano de Bergerac, ma forse un po’ della sua sensibilità può essere d’aiuto: «è successo tutto così in fretta, forse non ti sembra vero, ma purtroppo è successo», «magari hai bisogno di piangere», «sembra tutto pazzesco, vero?», «siedi un momento… sedetevi anche voi un pochino…», «prendetevi un po’ di tempo, ho solo bisogno di chiedervi qualcosa di lui…».
- On 21 Settembre 2012