Il vero Sensei. Imparare l’arte marziale dai disabili
di Oliviero Rossi (*)
Molti anni fa, sentendo il Maestro Cesare Barioli, pilastro fondamentale del judo italiano, parlare di disabilità, rimasi molto colpito da una sua asserzione “forte”.
Disse: «Sarebbe opportuno organizzare corsi per normodotati tenuti da portatori di handicap» (allora non si usava ancora la parola “disabile”).
Cos’era? Una frase a effetto, detta da chi ha fatto dell’anticonformismo e della capacità di leggere oltre le righe un modo di vivere?
Un modo di portare al centro dell’attenzione gli “ultimi” della nostra società, per cui i più elementari diritti civili sono, oggi come allora, spesso un lontano miraggio?
Una provocazione buttata lì da un uomo che ha fatto della proposta educativa del Budo, l’insieme delle arti marziali tradizionali giapponesi, una delle sue ragioni di vita?
L’ho pensato.
Mi sbagliavo.
Anni dopo ho toccato il problema con mano.
Non ho mai rifiutato un allievo e non ho mai dovuto allontanarne uno (anche se talvolta è stato necessario ricondurne più di uno all’ordine).
Ho quindi accettato con naturalezza i disabili nei miei corsi, ritenendo semplicemente che essi avrebbero avuto un po’ più di difficoltà degli altri nell’apprendere i principi naturali che regolano la disciplina che pratico.
Sbagliavo nuovamente.
Per dirla meglio, con le parole di Paolo e Alessandro che ho conosciuto in questi giorni in un corso di team building, “stavo per incontrare una nuova opportunità per apprendere” quella che sarebbe stata una delle lezioni più importanti della mia vita.
I disabili non sono allievi normali con qualche difficoltà in più.
Certo, si integrano nel gruppo come tali e beneficiano come gli altri del clima positivo, di crescita, di divertimento che ogni insegnante di arti marziali realizza per il proprio team.
Ma i problemi che essi devono affrontare sono cento, mille volte più complessi.
Le difficoltà di coordinazione motoria, che ai ragazzini di oggi imbambolati davanti a monitor di varie dimensioni vanno solo “spazzolate via”, sono per loro disfunzioni gravi, spesso presenti dalla nascita.
Sono segni lasciati nella loro memoria muscolo-scheletrica e psichica che non puoi cancellare con un semplice colpo di spugna.
Sono la loro forma.
Una realtà dura, con cui essi si confrontano tutti i giorni.
Un pugno quotidiano, che questo mondo tira loro in faccia, ricordando che non è stato disegnato per loro.
E allora, se vuoi meritarti la stima e la fiducia che il tuo gruppo ti attribuisce, quel pugno devono poterlo parare.
Devi capire come insegnarglielo.
Prima devi capire le loro difficoltà, il perché non riescono a eseguire quel movimento che è così semplice e naturale, per te che lo hai fatto da che ti ricordi.
Lo capisci, capisci il deficit motorio, capisci cosa non funziona in loro, ma quando lo hai capito, sei ancora a zero.
Allora devi cominciare a capire cosa fai tu.
Devi analizzare la cinetica del movimento in sé, per essere in grado di spiegarla, fin nel più estremo dettaglio.
Ma non è ancora sufficiente, le parole che definiscono la dinamica di un gesto sono ancora troppo poco, per far capire davvero quel movimento.
Capire a fondo
Bisogna essere più chiari.
Devi capire cosa quel gesto atletico fa risuonare dentro di te.
Devi capire cosa ti fa sentire.
Devi riflettere sulle sensazioni e sulle emozioni che ti fa provare, perché devi spiegarle a chi non può apprendere per semplice imitazione.
Devi spiegare a chi può capire solo da dentro.
Devi vedere le connessioni che esistono tra le sensazioni fisiche e le emozioni psichiche e comprendere che quella separazione tra mente e corpo è, alla fine, più illusoria che reale.
Che davvero esiste un’unità imprescindibile tra le due cose. Devi dare modo di comprendere a chi questa dicotomia non ha mai sperato di poterla saldare.
E infine, colti gli elementi essenziali, devi insegnarli al ragazzo che ti ascolta, qui sì come per i normodotati, affinché possa fare suo il gesto e adattarlo alle sue caratteristiche psicofisiche, facendone un qualche cosa di caratteristico della sua ineguagliabile individualità.
Solo così, l’esecuzione di quel gesto sarà efficace e davvero l’espressione di qualcosa di autentico.
La tenacia dei disabili
Ma totalmente diversa dagli altri è la tenacia dei disabili.
Forgiati dalla lotta quotidiana e schermati dall’unica debolezza in grado di spegnerli, il temuto ridicolo, essi mostrano una forza di carattere affatto comune ai loro coetanei.
Giustamente valorizzata, questa loro forza interiore promuove una dinamica motivazionale che diviene inarrestabile, e che finisce per essere un inevitabile esempio positivo di confronto per certi normodotati, cui un po’ di sano ridicolo, invece, talvolta, non fa affatto male.
È facile comprendere che si tratta di un lavoro che parte come qualcosa di estremamente articolato e difficile ma che, alla fine, ti porta a un maggior grado di consapevolezza che si traduce, in fondo, in semplicità.
In una parola, all’essenziale.
Un lavoro ben ripagato, anche umanamente.
Perché lo sguardo di riconoscimento di un ragazzo che ora fa una cosa desiderata che gli è sempre stata negata, è il regalo più bello che un insegnante può ricevere.
O, almeno, così è stato per me, che provo ancora quest’emozione ogni volta che ne parlo.
L’unico mio sincero rammarico è che, purtroppo, non ci sono parole che possano esprimere questo sentimento.
Per questo, da sempre, i giapponesi usano la locuzione “i shin den shin”, che di solito si traduce con “da cuore a cuore” o “da spirito a spirito”.
Spiegare perché si dovrebbe invece tradurre “da pancia a pancia” ci porterebbe ora troppo in là.
È così che vengono di solito tramandati gli insegnamenti più importanti da maestro ad allievo nel Budo.
Ed è qui che deve tornare anche la nostra riflessione sulla parole iniziali di Barioli.
Chi davvero ha appreso in questo processo cognitivo?
Chi è stato il vero Maestro, il “Sensei” che salutiamo e ringraziamo all’inizio e alla fine di ogni lezione?
Quando ho cominciato a spiegare a Matteo la coordinazione tra age-uke (parata alta) e la respirazione, e quando lui ha saputo realizzarla, io conoscevo la tecnica allo stesso modo? Ne avevo ugual consapevolezza?
Siamo proprio certi che sapessi davvero cos’era uno shuto (tecnica che colpisce con il taglio della mano aperta), prima di descrivere a Leonardo quella sensazione di formicolio che gli avrebbe fatto sentire l’energia che scorre nella parte della mano che deve colpire? Prima di tutto ciò, avrei saputo utilizzarlo con egual efficacia?
OSS, ragazzi speciali.
Grazie dal profondo del cuore a tutti voi.
Il vostro prezioso insegnamento non è andato sprecato.
(*) L’autore è un fisico, lavora come informatico in un’azienda di ITC.
È maestro di karate, cintura nera 5° dan.
- On 20 Novembre 2016