Quel che pochi vivono, e dicono
Immaginiamo un signore che si aggira per le strade di Londra all’inizio dell’Ottocento, attratto non dalle bellezze che la città offre, né dalle strade da poco pavimentate, né dalle belle carrozze e dalle ricche ladies che si aggirano eleganti e altezzose. No, questo signore osserva con acume di pittore o scrittore (di pittore e di scrittore) i comportamenti strani di persone che hanno tremori alle mani, camminano quasi come se stessero correndo, tutti protesi in avanti, magari anche sbavando dalla bocca.
di Lorenzo Carpanè
Ma chi è quest’uomo, professor Hurwitz?
È un uomo che molti conoscono, anche senza saperlo: James Parkinson.
Quello del «parkinson», cioè della malattia?
Esattamente lui.
Così ci risponde il prof. Hurwitz, che insegna «Medicina e arti» al Kings’ College di Londra.
Lo ascoltiamo al primo convegno internazionale Narrative medicine and rare diseases, che l’Istituto Superiore di Sanità ha organizzato a Roma il 4 giugno (www.iss.it/cnmr).
Ma il Parkinson è una malattia rara? Oggi certo che no, ma all’epoca di Parkinson non era conosciuto come tale e quindi, in un certo senso,era malattia rara.
Ma cosa fa, esattamente, Parkinson per le strade di Londra?
Osserva. E racconta. Lo fa ad esempio nel suo libro sul «parkinson» del 1817. Lo fa osservando davvero la gente per strada, per molto tempo, incontrando, anche a distanza di dieci anni, le stesse persone e potendo così vedere le differenze tra com’erano e come sono.
Lo fa da medico, naturalmente.
Non esattamente, o almeno, non solo. Se confrontiamo quello che egli scrive con le descrizioni che vengono fatte dai grandi pittori e scrittori del suo tempo, vedremo un’attenzione simile per i particolari, per le movenze delle persone, sconosciute ad altri libri di medicina del suo tempo.
E quali sono i risultati?
Parkinson riesce a cogliere aspetti che prima nessuno aveva colto. E ci lascia un modello. Di «ascolto» mi verrebbe da dire, di attenzione per l’insieme della persona, per quello che è, non solo per i sintomi che ha.
Al suo fianco, una signora di una cinquantina d’anni ascolta con attenzione.
Si chiama Elaine Benton, cammina a fatica reggendosi ad una stampella. Si aggiunge anche lei alla discussione
È quello che ho compreso sulla mia pelle. Soffro di una malattia ereditaria degenerativa rara, la sindrome di Gaucher. E, per non farmi mancare nulla, da cinque anni ho scoperto di soffrire anche di Parkinson.
L’ho capito soprattutto da quando ho scritto un libro di poesie che mi porta a girare il mondo. E poi, da quando ho anche aperto un mio blog in cui ricevo molte mail, a volte anche buffe e divertenti.
Cioè, signora Benton, lei dice che scrivere aiutare a guardare diversamente anche la malattia?
Certo che aiuta. Non si guarisce da certe malattie. Ma guardarle con un altro occhio, possibilmente con il sorriso, allevia se stessi. E chi ci sta attorno: parenti, amici, ma anche i medici.
Anche i medici?
Sì, anche loro. Noi, raccontando quello che proviamo, li aiutiamo. E loro stanno meglio. E così fanno stare meglio anche noi.
Attorno si fa un capannello di persone. Medici, sociologi, antropologi, infermieri, perfino linguisti e letterati.
Tra questi, una ragazza, serba: anche lei vive una malattia rara, anche lei si sta dedicando alla ricerca in questo campo.
Facendo cosa, dottoressa Ivana Golubovic?
Io mi occupo di letteratura. In particolare di come i grandi scrittori raccontano le malattie. Come fa ad esempio Ibsen in «Spettri».
Ma davvero studiare come gli scrittori raccontano la malattia può aiutare?
Certo che può: sono come uno specchio. Nelle loro narrazioni ci possiamo rispecchiare appunto, vedendo agire gli stessi meccanismi che agiscono in noi. Li vediamo, li comprendiamo, ci riconosciamo. Anche questo porta a sentirsi meno soli, come altrimenti, noi che soffriamo malattie rare, ci possiamo sentire.
E in Italia, si fa qualcosa? Certo: altre esperienze sono state raccontate, che vanno da Torino a Firenze, da Roma a Perugia.
Qualche punto interrogativo? Sì, ad esempio la necessità di allargare le eseperienze, formando adeguatamente il personale sanitario. Ma anche aprendo le porte ai team di lavoro anche a linguisti ed esperti di critica letteraria, per un approccio davvero multidisciplinare. E che tenga conto che narrare lo si fa con utilizzando la parola.
Che è quello che pensiamo noi della Palestra.
Ma anche su questo, al convegno si sono sentite voci aperte al dialogo.
- On 2 Giugno 2012