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Chissà cosa viene a raccontarci di nuovo

Quando il corso di public speaking è per fior di speaker

di Alessandro Lucchini

Qualche settimana fa mi son trovato di fronte un pubblico molto esigente: docenti universitari, manager, avvocati, magistrati. Di solito stanno loro in cattedra. Obiettivo del corso: confrontarsi su come rendere più efficaci, più interattivi e coinvolgenti i momenti formativi anche nella modalità online.
Averli come public, al di là dello schermo, mi faceva immaginare la domanda di fondo degli eventi tipo train the trainer: «chissà questo che cosa viene a raccontarci di nuovo?». Poi invece ho sentito curiosità, empatia, buona disponibilità all’ascolto, fin dai primi momenti. Facevano domande precise, impegnative, che mi guidavano nell’esposizione. Sia nei momenti in plenaria sia nei sottogruppi dedicati al question and answer, ho sentito grande apertura e voglia di condividere, anche dubbi, incertezze, pensieri diversi dalle proprie solidità.
Ecco com’è andato l’allenamento.

Predisposizione naturale o si può imparare?

Una delle domande più frequenti sul tema: quanto conta la predisposizione naturale, e quanto invece l’esercizio e lo studio per migliorare le proprie tecniche?
La predisposizione naturale è un dono di natura. Noi allenatori possiamo farci poco. Tanto, invece, possiamo fare sullo studio, sull’esercizio, per rendere più efficace la comunicazione in pubblico. Vale per tutte le espressioni umane, dalla musica allo sport, dalla pittura alla cucina: chiamalo talento, chiamalo genio, non è cosa per noi. La responsabilità di chi fa mestieri come il mio sta nello sviluppare quella predisposizione. Tecniche, metodo, analisi delle pratiche più fruttuose e degli errori più frequenti: tutto questo, applicato alle doti naturali, le arricchisce, offre delle alternative. Non sostituisce la natura, ma può migliorarla.

Parliamo sempre in pubblico

Quando si pensa al parlare in pubblico, di solito si pensa a una platea con molte persone. In realtà parliamo in pubblico molto spesso: riunioni con colleghi e clienti, piccoli gruppi di progetto, contesti amicali e familiari.
Che sia lavoro, famiglia, o amici: il modo di rapportare la nostra comunicazione a questi contesti diversi dipende dalle relazioni che abbiamo con questi contesti. Al centro non è il contenuto: al centro è la relazione.
Proprio per questo ci siamo impegnati, durante il nostro incontro, a concepire il public speaking come un parlare con il pubblico e non solo un parlare al pubblico. Parlare con quel pubblico specifico: che sia one-to-one, il mio capo, il mio collaboratore, il mio cliente più importante, o one-to-few, le persone intorno a un tavolo di riunione, o un one-to-many, la platea di una conferenza, il nostro compito di speaker è sempre trasformare il monologo in dialogo.
Ecco perché la base per un buon public speaking è la capacità di ascolto. Se gli dei ci hanno dato due orecchie e una bocca, diceva un filosofo greco (vai poi a sapere se fu Zenone, o Talete, un saggio, comunque), forse è perché dobbiamo ascoltare di più, prima di parlare. Mettersi in relazione con il pubblico, capire di che cosa ha bisogno, quali sono le sue aspettative, la sua pazienza, la sua capacità/disponibilità nel trattenere i messaggi.
I contesti amicali e familiari hanno un’ulteriore risorsa, molto importante, che noi speaker potremmo valorizzare di più: il feedback. In genere, in un contesto informale il pubblico è più attivo, e quindi più generoso di feedback: feedback is a gift. Se solo riuscissimo a contenere quella vena permalosa che abbiamo un po’ tutti (chiedo scusa, parlo per me).

Il public speaking oggi: da teatro a tv

Si dice spesso che in quest’ultimo anno il public speaking si è trasformato, da “comunicazione teatrale” a “comunicazione televisiva”. Beh, magari fosse diventato comunicazione televisiva! Spesso si è limitato a essere webinar, nel senso deteriore del termine. Quello parla, scorre le slide, io sto lì, e intanto rispondo alle mail, o stiro, o giro il sugo: ottimizzo.
Se non abbiamo il pubblico di fronte a noi, come in teatro, ma lo abbiamo solo al di là dello schermo, dobbiamo impegnarci per diventare comunicatori televisivi, quindi fare di tutto per “rompere la quarta parete”, o “bucare lo schermo”, ma dobbiamo saper essere anche registi di noi stessi. Prenderci cura di tutto ciò che arriva al pubblico: modulare la voce, i movimenti del corpo, i gesti, che tutto stia dentro il campo visivo della telecamera. Molte volte vediamo slide lasciate lì, immobili, per sei o sette minuti, con il relatore ridotto un francobollo al piede dello schermo, a recitare la sua litania. Lasciando lì fissa una slide così tanto tempo, è inevitabile che il pubblico si deconcentri.

 Le slide, altro bel tema

Certo: ancora di più che nella situazione fisica, nel public speaking online va tenuto conto del tempo utile a fissare un’immagine, una parola chiave, un qualunque elemento visivo a sostegno del messaggio: tre-quattro minuti per ogni contenuto, non di più, e poi via, un cambio. Tempi televisivi, appunto.
Dobbiamo dedicare più tempo alla progettazione dell’intervento, alla gestione del tempo, alla creatività nell’aggirare gli ostacoli: la connessione che non tiene, il video che non parte o va a scatti, la suddivisione in sottogruppi più complessa del previsto. A ben vedere, tutto questo è manna per chi parla in pubblico: se ci facciamo pace, possiamo anche trovare il pubblico nostro alleato nella risoluzione di quel problema, anziché ostile o sfuggente.
Niente di rivoluzionario, solo un po’ di buon senso pratico. 

Sforziamoci di essere interessanti, non esaustivi

Le due dimensioni fondamentali del nostro vivere, lo spazio e il tempo (il cronos e il topos degli antichi), oggi coincidono in un unico elemento (cronotopo, appunto). Occorre consapevolezza dello spazio, di ciò che arriva al pubblico tramite la videocamera. E del tempo: liberiamoci dal bisogno di essere esaustivi, di dire tutto! Sforziamoci di essere interessanti! E sollecitiamo l’attenzione e l’interazione: mi alzo, se ero seduto, tolgo la slide e faccio una domanda, metto un questionario, lancio una provocazione o un esercizio. Se ho un’ora di intervento devo saperlo spacchettare in più micro-contenuti, ciascuno autoconsistente, ma che nell’insieme facciano riconoscere il filo logico.
Finché non torneremo in aula fisiche, dovremo allenarci a questa situazione (basta con il new normal, per cortesia, ma il senso è quello, è chiaro). E anche dopo, credo, ci sarà da mettere ben a frutto questa esperienza (quanti eventi fisici in meno, quanti più riunioni-lezioni-convegni in Zoom!). 

Il contenuto è solo un mezzo che unisce public e speaker

In definitiva, come coinvolgere e interessare la platea ai contenuti del proprio intervento?
Content is king, diceva Bill Gates. A mio parere, audience is king. Il contenuto è solo un mezzo per collegare public e speaker. È solo uno strumento che allaccia una relazione. Non potremo mai essere esaustivi, ma se saremo interessanti, coinvolgenti, se genereremo delle domande nel pubblico, avremo fatto il nostro mestiere con dignità, onestà e anche con una certa abilità.
I have a dream, quando parlo con un pubblico: generare più domande di quelle cui riesco a rispondere. Credo sia una dimensione molto positiva per qualunque professionista, quando insegna: avere curiosità e voglia di ascoltare chi la pensa in modo diverso.
Come diceva Guccini, siamo eterni studenti: proprio come le studentesse e gli studenti, anche i super speaker di quel corso si sono messi in ascolto, e mi hanno accolto nei loro studi e nelle loro scoperte. Li ringrazio per questo.

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