Il dialetto in letteratura, al cinema, nella musica, su internet, per le strade, in pubblicità
di Chiara Lucchini
Il dialetto in poesia come difesa contro l’invasione della modernità, e in narrativa come compresenza tipica della comunicazione ordinaria. Al cinema, con il neorealismo e la commedia all’italiana. Nella musica, come “dispositivo identitario”. Fino a sbarcare su Internet, dove vengono proposti nuovi modelli di dialetto. Dialetto su manifesti, cartelli e insegne nelle città. E nella pubblicità, anche delle multinazionali.
Il dialetto in letteratura
Negli anni di mezzo del Novecento troviamo la tendenza a cercare rifugio nel proprio dialetto nativo. Il dialetto, dunque, poteva rappresentare una difesa contro l’invasione della modernità.
Questa funzione “salvifica” fu avvertita, e in qualche modo teorizzata, da Pier Paolo Pasolini attraverso le sue poesie scritte in friulano, e anche attraverso il dialetto romanesco, che ritroviamo in romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta) nei quali viene rappresentata una realtà spesso crudele.
Nel suo lavoro sulla poesia dialettale, Le parole perdute, Franco Brevini sembra dirci che nel Novecento il dialetto è scelto e usato dai poeti principalmente «come lingua del passato, lingua perduta, che può essere rabbiosamente rivendicata».
Nel campo della narrativa, la presenza più o meno incisiva del dialetto o dell’italiano regionale ha contrassegnato, da Verga in poi, la produzione di autori di ogni latitudine e di ogni tendenza: Carlo Emilio Gadda, Stefano D’Arrigo, Pier Paolo Pasolini, Vincenzo Consolo, sino a Laura Pariani, Marcello Fois, Silvana Grasso e Andrea Camilleri.
Adesso il dialetto è usato per rispecchiare nella lingua letteraria quella compresenza tipica della comunicazione ordinaria, caratterizzata dall’uso combinato dei due codici.
Il dialetto al cinema
Nella prima fase si tendeva a dare spazio a inserzioni dialettali più o meno estese, ma questa tendenza venne poi osteggiata dal regime fascista, che attuò una politica rigorosamente dialettofoba. Non mancarono, tuttavia, casi in cui il regime attenuò la sua ostilità nei confronti del dialetto, soprattutto nei difficili anni della guerra, allo scopo di concedere qualche momento di leggerezza e di svago. In questi casi il dialetto venne utilizzato con fini caricaturali, spesso per ridicolizzare coloro che lo parlavano.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, si apre una nuova fase con il filone neorealista. Qui il dialetto non ha scopi macchiettistici e caricaturali, ma serve a rappresentare e riprodurre la lingua del popolo. Questa stagione si inaugura con Roma città aperta di Roberto Rossellini. Il film mette in risalto il plurilinguismo che caratterizzava all’epoca la capitale occupata dalle truppe straniere, dando particolare rilevanza al dialetto romanesco. In Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, poi, la contrapposizione italiano-dialetto romanesco ha un chiaro intento polemico: marcare nettamente la distanza delle classi sociali più elevate da quelle più povere e oppresse.
Intento analogo quello di La terra trema di Luchino Visconti, che decise di girare il film in dialetto siciliano, nella variante locale di Acitrezza.
Nel secondo dopoguerra si sviluppa un altro filone, quello comico della commedia all’italiana, con la quale si afferma una dialettalità che rafforza molti stereotipi, come nota Fabio Rossi: «il sessuomane e il poliziotto hanno l’accento siciliano, l’ingenuo quello bergamasco, veneto o ciociaro, il cocciuto il sardo, l’arrivista senza scrupoli il milanese, la domestica il veneto o l’abruzzese, l’imbroglione il napoletano, la prostituta il bolognese».
Tra le varietà dialettali rappresentate al cinema, il primato assoluto spetta al romanesco. Questo sia per la sua vicinanza con l’italiano che lo rende più facilmente comprensibile di altri dialetti d’Italia, sia per il ruolo egemone di Roma.
Il secondo posto spetta al napoletano. Segue il siciliano che compare innanzitutto nelle produzioni incentrate sulla mafia.
Piuttosto limitata appare la presenza dei dialetti settentrionali.
Un’eccezione importante è il film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli (1978), nel quale attori non professionisti recitano in dialetto bergamasco.
Tra gli anni Ottanta e Novanta torna il dialetto siciliano nei due film del regista milanese Marco Risi: Mery per sempre (1989) e Ragazzi fuori (1990). Secondo alcuni critici, questi film – il cui stile ricalca i canoni espressivi del neorealismo degli anni Quaranta – hanno segnato l’inizio di una fase neo-neorealista: attori non professionisti, ambientazioni autentiche, toni polemici, lettura critica dell’attualità e, soprattutto, uso del dialetto.
Sono anche gli anni di Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, che lascia ampio spazio al dialetto che sarà poi il codice prevalente di Baarìa: uscito nel 2009 e distribuito nelle sale italiane in due diverse versioni, una in lingua originale e l’altra in italiano regionale, risultanti dalla scrittura di due diverse sceneggiature.
Il dialetto nella musica
È curioso il fatto che l’unico genere musicale “leggero” per cui l’Italia è nota nel mondo è la canzone dialettale napoletana (da Salvatore Di Giacomo a Roberto Murolo, da Renato Carosone a Pino Daniele).
Già dagli anni Novanta vi è un uso sempre più frequente del dialetto specie nelle produzioni musicali riconducibili ai generi rap e reggae, e un atteggiamento non più conflittuale nei confronti del dialetto. In questo periodo le canzoni con testi scritti e cantati nei diversi codici locali di numerose regioni italiane entrano prepotentemente nel mercato discografico.
Ma sono anche anni in cui si comincia a percepire il senso di straniamento dovuto alla globalizzazione. Così il dialetto nelle canzoni, quale codice profondamente legato ai luoghi e al loro sentimento, diventa anche uno straordinario “dispositivo identitario”.
Così spiega Carmen Consoli:
Queste parole ci fanno capire non soltanto una delle ragioni principali per la quale molti artisti si affacciano al dialetto, ma anche la diffusissima tendenza a riprendere elementi della cultura locale-tradizionale.
La canzone in dialetto, sia che usi il codice locale in funzione “poetica” (funzione “lirico-espressiva”), sia che lo usi come linguaggio di una nuova canzone di protesta e di denuncia o come simbolo del ritorno alle radici (funzione “simbolico-ideologica”), sembra rappresentare una formidabile occasione per comunicare attingendo a un serbatoio di immagini, pratiche, valori, denominazioni di cose di un universo culturale ormai in declino – l’universo della cultura tradizionale-dialettale, appunto.
Il dialetto su Internet
Il dialetto è sbarcato anche nel web.
Esistono siti di genere nostalgico che fungono da veri e propri archivi per poesie, racconti e proverbi in dialetto: documenti, dunque, che ripropongono un dialetto modificato e filtrato, poco fedele all’originale.
Vi sono poi siti di genere conservativo (dal gusto campanilistico) che mirano alla diffusione e alla conservazione del dialetto, definito sempre in termini di lingua.
A questi si aggiungono i siti di genere scientifico che pubblicano documenti per la conoscenza della struttura delle lingue.
Vi sono, infine, siti di genere comunicativo la cui principale finalità è l’interazione tra utenti che utilizzano il dialetto per comunicare tra di loro, proprio come si farebbe nella vita reale, chiacchierando su qualsiasi argomento via mail o via chat.
Il dialetto su cartelli e insegne
Un esempio: «Travagghiamu for you». Di questo manifesto, nel novembre del 2000, sono state tappezzate le vie di Palermo, sconvolta dai numerosi cantieri, aperti in vista del vertice delle Nazioni Unite.
Il dialetto in pubblicità
In molti casi, il dialetto nella pubblicità viene utilizzato per la promozione di prodotti alimentari con il fine di sottolineare la genuinità tramite l’esaltazione del loro legame con una specifica area geografica. Per esempio, una campagna pubblicitaria ideata dalla Conad nel 2000 per promuovere alimenti regionali usava il dialetto parlato nella regione da cui arrivava il prodotto: così un agricoltore toscano si vantava del fatto che «Con hodeste olive ss’ha daffare un olio cchè lla fine de i mmondo».
Interessante anche il caso di una campagna della Ferrero, basata sull’idea di personalizzare i barattoli di Nutella con 135 espressioni dialettali suddivise in 16 aree linguistiche nelle quali sono raggruppate le province italiane i cui dialetti si somigliano. Le etichette, riferite a espressioni e parole dialettali sui temi dell’entusiasmo, del buongiorno, dei nomignoli affettivi, sono state realizzate con la consulenza di un gruppo di linguisti coordinati da Francesco Avolio dell’Università dell’Aquila. Tra le dialettichette dell’area milanese troviamo: «uelà», «Cum te stet?», «alùra?».
La scelta di usare il dialetto ha interessato recentemente anche la comunicazione di un’azienda globale, la svedese Ikea, che ha chiamato il centro commerciale di Roncadelle, nel bresciano, Elnòs shopping, ricorrendo al dialetto bresciano per rendere il possessivo “il nostro”. Quindi anche le multinazionali, nel riproporre il proprio brand e i propri prodotti in chiave locale, trovano nel dialetto uno strumento straordinario per avvicinarsi alle caratteristiche e ai bisogni dei consumatori delle diverse aree geografiche-sociali scelte di volta in volta come target.
Questo articolo riprende e sintetizza i contenuti del volume La ricchezza dei dialetti, di Giovanni Ruffino e Roberto Sottile
- On 2 Ottobre 2018